lunedì, novembre 06, 2006

Zona grigia Tronchetti e i furbetti dei telefonini

Zona grigia Tronchetti di Peter Gomez, Vittorio Malagutti e Leo Sisti L'affaire delle intercettazioni. Gli intrecci fra la Telecom e la Pirelli. Il ruolo della holding Olimpia. La Tim. Le ricche stock option. E poi i debiti. Tutti i retroscena di un puzzle pericoloso
Una cifra: zero. Nella sala dell'hotel Principe di Savoia a Milano, dove lunedì 25 settembre Marco Tronchetti Provera ha trasformato una conferenza stampa in un'appassionata difesa di se stesso e delle sue aziende, un numero ha colpito gli analisti e i giornalisti. "Sapete quanto denaro è passato da Telecom a Pirelli negli ultimi anni?", ha chiesto polemicamente alla platea l'ex presidente del gruppo telefonico. Poi si è dato una risposta. "Zero".

Come dire, i profitti dell'ex monopolio telefonico non servono a sostenere le società di Tronchetti. Un modo per smentire dubbi e perplessità degli ambienti finanziari che da tempo si interrogano sulla solidità della lunga catena di controllo che dall'accomandita personale dell'imprenditore milanese arriva fino al gigante dei telefoni, attraverso ben sei passaggi.

Una costruzione che permette a Tronchetti e famiglia di controllare una delle più grandi imprese italiane con una partecipazione diretta che, a conti fatti, risulta inferiore all'1 per cento. Al di là delle retoriche evocazioni di presunte 'zone grigie' da cui arriverebbero gli attacchi a Telecom, proprio questo aspetto finanziario rappresenta la sostanza del tentato contrattacco di Tronchetti, da settimane costretto nell'angolo da polemiche politiche, perplessità degli investitori internazionali e, da ultimo, anche dalla magistratura con l'arresto di uno dei suoi manager di fiducia, Giuliano Tavaroli, e della rete di presunti spioni che a lui faceva capo.

Quel lunedì, mentre Tronchetti arringava una piccola folla di giornalisti convocati in fretta e furia, i titoli Pirelli erano sotto attacco in Borsa, colpiti da ribassi che hanno superato il 4 per cento. I mercati stavano dando un segnale più evidente che mai delle loro perplessità. Ecco, allora, il contrattacco. I debiti non sono un problema e Pirelli non succhia risorse a Telecom.


Questa la sostanza del messaggio di Tronchetti. Di lì a pochi minuti molti analisti sono andati a riprendere una tabellina. Pochi dati che mettono a confronto Telecom Italia con le maggiori aziende europee di telecomunicazioni. Negli ultimi tre anni, come spiega questa tabella, il gruppo italiano ha distribuito sotto forma di dividendi in media l'85 per cento dei suoi utili. Una situazione che non ha eguali in nessun altro tra i colossi telefonici continentali. Qualche esempio. France Telecom ha distribuito in media il 20 per cento dei propri utili, British Telecom il 54, la spagnola Telefonica il 60. Dati molto lontani all'85 per cento della società italiana. Un record.

Come si spiega questa differenza così eclatante? Semplice: gli ingenti flussi di dividendi distribuiti da Telecom servono a garantire la sopravvivenza di Olimpia, la holding a cui fa capo il controllo degli ex telefoni di Stato. E da chi è controllata Olimpia? Dalla Pirelli di Tronchetti, che ne possiede il 70 per cento circa del capitale, una quota che è destinata a salire all'80 nel prossimo ottobre quando, come previsto, Banca Intesa e Unicredito cederanno la loro partecipazione. Il restante 20 per cento è invece di proprietà della famiglia Benetton.

E allora, è vero che Pirelli non ha prelevato neppure un euro dalle casse di Telecom. In sua vece, però, lo ha fatto Olimpia, che per evitare di portare i libri in tribunale per effetto del pesante indebitamento è costretta a succhiare quanto più denaro possibile dalla sua controllata. In altre parole, i profitti della telefonia, invece di finanziare investimenti in tecnologie e acquisizioni all'estero, vanno in larga parte a sostenere i bilanci della holding che la controlla. A questo punto, la conclusione a cui arrivano gli analisti è semplice.

Lo sviluppo di Telecom è condizionato dai debiti della struttura finanziaria che sta sopra la sua testa. Non è un caso, al di là di tutte le motivazioni di carattere strategico-industriale, che alla fine del 2004 Tronchetti abbia scelto di assorbire Tim, vera macchina da utili del gruppo. Questa mossa serviva ad avvicinare la cassa al vertice della catena finanziaria, là dove si trovano i debiti. Con la fusione si raggiungeva un altro risultato importante. Veniva aumentata la capitalizzazione borsistica di Telecom, rendendo così più ardua una scalata in Borsa. È questo il peccato originale di Telecom, ereditato dalla gestione di Roberto Colaninno e dei suoi amici della Razza padana che scalarono l'azienda indebitandola.
Come salvare la situazione? Una soluzione ci sarebbe, tornata alla ribalta nei giorni scorsi, subito dopo lo scorporo delle attività di telefonia mobile: in pratica una rinascita di Tim. Con la vendita del business dei cellulari, peraltro non proprio facile da portare a termine, Tronchetti avrebbe incassato 30-35 miliardi di liquidità, che sarebbero andati in parte a finanziare un superdividendo destinato alla controllante Olimpia, che così avrebbe risolto tutti i suoi problemi d'indebitamento. Ancora una volta, quindi, l'azienda Telecom sarebbe stata sacrificata per fornire una scialuppa di salvataggio ai propri soci di controllo.

Di fronte a una prospettiva di questo tipo, però, alcuni dei consiglieri indipendenti avrebbero espresso pesanti perplessità. Del resto, nonostante i segnali rassicuranti che provenivano dalle fonti ufficiali dell'azienda, attivissime nell'accreditare l'immagine di un consiglio di amministrazione compatto al fianco di Tronchetti, la situazione reale, secondo quanto risulta a 'L'espresso', sarebbe ben più articolata. Nel decisivo consiglio di amministrazione dell'11 settembre, quando venne annunciata l'intenzione di scorporare le attività di rete fissa (il cosiddetto ultimo miglio) e quelle della telefonia mobile, i due consiglieri indipendenti Francesco Denozza e Marco Onado si sono astenuti, esprimendo l'esigenza di una maggiore informativa sull'operazione. Di lì a quattro giorni Tronchetti ha spiazzato tutti, lasciando la poltrona di presidente a Guido Rossi.

Ma i problemi restano. Uno su tutti. Come conciliare le esigenze di Telecom, che ha bisogno di denaro fresco per investire e svilupparsi, con quelle della catena di holding che la controlla, a sua volta bisognosa di liquidità per far fronte agli impegni contratti al momento dell'acquisto del colosso telefonico? Nel 2001 Tronchetti riuscì a finanziare l'acquisizione dell'azienda messa in vendita da Colaninno e Chicco Gnutti grazie all'incasso da parte di Pirelli di 3,5 miliardi di dollari pagati dall'americana Corning nel settembre del 2000 per comprare l'Optical technologies. Un'operazione che capita una volta nella vita, frutto della bolla tecnologica di quel periodo. Un affare che, tra l'altro, fece guadagnare personalmente circa 200 milioni di euro a Tronchetti, grazie a una super stock option, che all'epoca fu al centro di un'indagine anche da parte della Consob conclusa senza conseguenze per il fortunato imprenditore milanese.

Iniziò così, cinque anni fa, l'avventura in Telecom scandita, per Pirelli, da una serie di cessioni che hanno trasformato una delle più antiche aziende italiane. Via le attività nei cavi. Venduta a investitori finanziari anche una quota di minoranza nella società che gestisce il business dei pneumatici. E nelle prossime settimane il gruppo ha annunciato nuove dismissioni tra le partecipazioni considerate non strategiche. Tutto per rispondere agli impegni sul fronte telefonico. Sui bilanci di Pirelli incombe anche un altro macigno. E cioè la svalutazione della partecipazione indiretta nella stessa Telecom. Nel 2001 Tronchetti comprò da Colaninno e soci al prezzo di 4,2 euro per azione contro una quotazione allora corrente in Borsa che superava di poco quota 2 euro. Un prezzo che lasciò di sasso gran parte del mondo finanziario. Peggio: a cinque anni di distanza, il titolo del gruppo telefonico naviga intorno a 2,1 euro, sempre molto distante dal valore di carico nei conti di Pirelli. Solo che adesso, con ogni probabilità, la Consob imporrà a Tronchetti la svalutazione della partecipazione in Telecom, avvicinandola alle quotazioni di mercato.

Una svalutazione che sin qui è stata sempre evitata. La finanziaria Edizione dei Benetton ha già adeguato due volte il valore della propria quota con una sacrificio finanziario vicino ai 500 milioni. Per Pirelli, che possiede una partecipazione in Olimpia quattro volte più grande rispetto a quella della famiglia di Treviso, il taglio (se ci sarà) risulterà ovviamente ben più pesante. Gli analisti calcolano che, nell'ipotesi di una svalutazione a quota 3 euro per azione, il costo ammonterebbe a poco più di 2 miliardi.
"Non c'è problema", ribatte Tronchetti: "Pirelli è solida". E infatti il patrimonio dell'azienda supera i 5 miliardi di euro. Più che sufficiente per reggere l'impatto della tegola Telecom. Resta la questione dei debiti. In base a una simulazione di consolidamento integrale di Olimpia in Pirelli che compare nell'ultima relazione semestrale della stessa Pirelli, al 30 giugno la posizione finanziaria netta del gruppo risultava negativa per 4,7 miliardi. In base alle stime più accreditate questa somma dovrebbe leggermente diminuire nel bilancio di fine anno. I debiti però si confronterebbero con un patrimonio netto più che dimezzato per effetto della svalutazione della quota in Telecom.

Come riequilibrare la situazione? Gli asset più importanti di Pirelli sono stati ceduti. Resterebbe l'attività nel real estate, già quotata in Borsa e affidata a Carlo Puri Negri. L'uscita dal settore immobiliare è stata però sempre formalmente esclusa. E allora? Telecom Italia dovrà continuare a sacrificarsi per sostenere i bilanci delle holding? Una soluzione, dicono gli analisti, ci sarebbe. Un aumento di capitale che riequilibrasse i conti di Pirelli. "Non se ne parla", dice Tronchetti, che dovrebbe aprire il portafoglio per fare la sua parte in una eventuale ricapitalizzazione. L'ultima volta, alla fine del 2004, in suo soccorso arrivarono le banche (Capitalia e Banca Intesa). E adesso?

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I furbetti del telefonino Due anni prima del blitz del 19 settembre, i manager della security Telecom si regalano un weekend in Sardegna. Guidati da Giuliano Tavaroli. Le immagini in esclusiva dei volti felici dei dirigenti che oggi sfliano davanti ai pm di Milano come arrestati, indagati o semplici testimoni
È un tiepido weekend di fine aprile 2004. Nelle foto tutti sudano e sorridono felici, al grande blitz di martedì 19 settembre mancano ancora più di due anni. I vertici della Sicurezza Telecom, un esercito privato di 500 uomini, si sentono una squadra. Sotto l'occhio attento di Giuliano Tavaroli e del responsabile security della Tim, Adamo Bove, arrancano per i sentieri delle montagne intorno a Tiscali: luogo magico della Sardegna dove prosperava la civiltà nuragica e, per ironia della sorte, nome di una delle società che attentano al monopolio della prima compagnia telefonica italiana. Nelle immagini compaiono molti dei dirigenti che in queste settimane sfilano davanti ai pm di Milano come arrestati, indagati o semplici testimoni. C'è Fabio Ghioni, il mago dell'informatica, creatore e nume tutelare del Tiger Team, la squadra di hacker assoldata da Telecom per testare la sicurezza dei sistemi e ora sospettata di aver 'bucato' i computer della Rcs-Corriere della Sera. C'è Angelo Jannone, l'ex ufficiale dei Ros inviato in Brasile per fronteggiare gli attacchi a colpi di dossier e microspie condotti dagli uomini dell'agenzia investigativa americana Kroll. C'è l'assistente di Tavaroli che a Roma teneva i contatti con i vertici delle forze di polizia e col Vaticano. E via via ci sono tutti gli altri. Sì, perché secondo la Procura la struttura messa in piedi in anni e anni di lavoro da Tavaroli era una macchina complessa. Quasi un servizio segreto parallelo in cui ciascuno, magari inconsapevolmente, contribuiva a raggiungere lo scopo: raccogliere e archiviare informazioni. Ecco, per i personaggi più controversi, le ipotesi al vaglio dei pm.

Emanuele Cipriani Fiorentino, titolare dell'agenzia investigativa Polis d'Istinto, amico dei figli di Licio Gelli, riceve all'estero da Pirelli-Telecom più di 20 milioni di euro. Nel suo archivio informatico sono state trovate "circa 800" pratiche relative a investigazioni condotte con metodi illeciti (corruzione, accessi a banche dati di Telecom, dei ministeri Interni e Finanze, e altre modalità "compatibili solo con la strumentalizzazione di apparati dello Stato"). Secondo i pm Cipriani utilizzava anche agenti del servizio segreto militare. Il ruolo di Cipriani potrebbe spiegare l'incredibile carriera del suo amico Marco Mancini, da semplice brigadiere dei carabinieri diventato poi capo del controspionaggio.


Stando a notizie apprese dall'ex capocentro del Sismi di Milano, Stefano D'Ambrosio, il detective privato era il fulcro di un meccanismo ideato per spillare denaro a Telecom e contemporaneamente far fare bella figura a Mancini con i suoi superiori: "Mancini acquisiva informazioni che trasmetteva a Tavaroli, il quale le veicolava a Cipriani. L'investigatore veniva poi retribuito (per quelle informazioni) dalle aziende di Tavaroli".

Le finte indagini di Cipriani servivano per "conferire all'attività informativa di Mancini una particolare credibilità". In sostanza le notizie di Mancini trovano sempre un conferma (apparente) da una seconda fonte, ma in questo modo "a volte venivano vendute vere e proprie bufale".

Guglielmo Sasinini Giornalista, responsabile di una sorta di ufficio analisi della security Telecom, riceveva 250 mila euro l'anno prima da Polis d'Istinto e poi dal gruppo di Tronchetti Provera. Vive da anni sotto scorta, è stato sentito come testimone: tra i suoi compiti, pagare profumatamente reports a giornalisti anche di grido. Fabio Ghioni lancia contro di lui accuse pesanti, tutte da verificare: "Ho saputo dal controller della security Maurizio Nobili, che Sasinini dichiarava di essere a conoscenza di tangenti versate ai politici. Nobili gli chiese come faceva a saperlo, Sasinini gli avrebbe risposto di averli fatti lui (così nel verbale, ndr) e di conservare la documentazione che lo dimostrava. Nobili ha preso queste affermazioni come un tentato ricatto".

Margherita Fancello Sarda di Dorgali, a pochi chilometri da Tiscali, è una lobbista legata a Francesco Cossiga e Paolo Cirino Pomicino, introdotta nei salotti della politica. Indagata per fatture per operazioni inesistenti, in tre anni riceve da Telecom più di un milione di euro, altro denaro le viene versato da Cipriani per conto di Tavaroli e da Claudio Tedesco, un amico di Tavaroli già arrestato per appalti di vigilanza concessi da enti pubblici in cambio di mazzette. Cipriani sostiene di averle dato 150 mila euro cash in un bar di via Veneto. Lei conferma, spiega di aver depositato la somma al Credito italiano, poi però fa marcia indietro: non ricorda di "aver effettivamente versato l'importo avuto".
Marco Bernardini Ex collaboratore del Sisde, socio dell'ex agente Cia Jonh Paul Spinelli. Subentra alla Polis d'Istinto quando L'espresso a fine 2004 svela la 'rete Tavaroli'. Doveva essere arrestato, ma Bernardini si presenta spontaneamente in Procura e dice di aver indagato su Chicco Gnutti, Carlo De Benedetti, Diego Della Valle e i fratelli Benetton, ed evita le manette. Sulla sua carriera dice tra l'altro: "Ho coordinato la scorta di Tronchetti Provera che mi risulta venisse pagata da Cipriani". Restano da verificare altre sue dichiarazioni.

Fabio Ghioni Ex responsabile della Tecnology and Information security, nel maggio 2006 esegue il primo audit su Radar, il sistema usato per estrarre tabulati da Tim senza lasciare tracce. Bernardini dice che Ghioni "faceva uso di abusive intercettazioni telematiche e monitorava i computer dei dipendenti sorvegliando la posta elettronica", e che gli chiese di recuperare gli indirizzi e-mail di vari giornalisti e aggiunge: "Ghioni mi ha sempre riferito di avere la possibilità di accesso anche a dati sensibili di altri gestori come Vodafone e Wind". <<<>>> Con le intercettazioni, si corrompevano poliziotti, carabinieri, finanzieri e in cambio si ottenevano informazioni riservate. Poi c'è il capitolo che riguarda i sistemi informatici di Telecom dai quali, secondo quanto ha raccontato una dipendente, era possibile estrarre tabulati telefonici e altre informazioni senza lasciare tracce. Un altro dato economico che finora era stato sottovalutato riguarda l'esatta scomposizione della grande torta delle intercettazioni legali, ovvero quelle disposte dalla magistratura. Secondo le ultime cifre fornite dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, si tratta di 265 milioni di euro l'anno. Per molti politici, il vero scandalo. Un business notevole per i privati, certo, ma che non finisce tutto nelle tasche dei gestori telefonici come si crede comunemente. Le varie Telecom-Tim, Vodafone e Wind, infatti, mettono le mani solo sul 10 per cento del totale. Mentre il resto va in tasca a una serie di piccole ditte che danno in affitto le apparecchiature. <<<>>> Telecom non può intercettare, legalmente o illegalmente”.

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