mercoledì, dicembre 07, 2005

Roberto beccantini e il dr.Watson e a sherlokko ndo u lassasti?

In difesa della mia compagna di viaggio, contro il suo peggior nemico!
Roberto Beccantini!
LA CORRISPONDENZA 1
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Beccantini Roberto wrote:
From: Beccantini Roberto 
Date: Fri, 2 Sep 2005 16:11:37 +0200
To: "'francescoi@muchomail.com'" 
Subject: R: Dalla Sicilia baciamo le mani

Per scrivere delle cose, e lanciare 'ste accuse, devi avere le prove. Elementare, Watson. 
Messaggio originale
Da: francesco i [mailto:francescoi@muchomail.com] 
Inviato: venerdì 2 settembre 2005 15.50 
A: Beccantini Roberto 
Oggetto: Dalla Sicilia baciamo le mani 
Devo stare attento al bacio le mani? Hai fatto presto a parlare Col dutturi, e con Guariniello, hai parlato anche con lui? Intanto io metto tutto nel blog e se succede qualcosa ame collegato con i vostri nomi, magari anche la vostra immaggine non sara` tanto bella; ricordi l'inaugurazione dell'edizione Romana della Gazzetta? Ricordo cosa ha detto Candido Cannavo al meschino maccia di pipistrello del Messaggero? Se campi 1000 anni, alla Juventus non potrai fare il danno d'immaggine che le ho fatto io! LO so che in Italia non ci sara` mai un Guariniello che indaga Guariniello, pero` neanche la tua immaggine ne uscira` tanto bene. Salutami Candido e magari se so quando viene a Catania ci vado per dargli una sbirciatina. Communque grazie del monito,vorra` dire che dovro` guardarmi sopra la spalla, del resto guardarsi alle spalle e`nell'istinto di noi siciliani. Ciao 
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inviato, da Dalvadore (turiddu baciamo le mani don beccantini)
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LA CORRISPONDENZ 2 
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Beccantini Roberto wrote:
From: Beccantini Roberto 
Date: Fri, 2 Sep 2005 16:11:37 +0200
To: "'francescoi@muchomail.com'" 
Subject: R: Dalla Sicilia baciamo le mani

Per scrivere delle cose, e lanciare 'ste accuse, devi avere le prove. Elementare, Watson. 
-----Messaggio originale----- 
Da: francesco i [mailto:francescoi@muchomail.com] 
Inviato: venerdì 2 settembre 2005 15.50 

A: Beccantini Roberto 
Oggetto: Dalla Sicilia baciamo le mani 

Devo stare attento al... baciamo le mani? Hai fatto presto a parlare cu dutturi. E con Guariniello, hai parlato anche con lui? 
Intanto, la corrispondenza con te la mando a molti miei amici, e`se mi succede qualcosa collegato con i vostri nomi, sono certo che faranno di tutto affinche` anche la vostra immagine non ne esca tanto pulita. 

Ricordi l'inaugurazione dell'edizione Romana della Gazzetta dello Sport? Ricordi cosa disse l'infame "candido cannavo" al meschino "faccia di pipistrello" (enrico maida) del Messaggero: "neanche se campi 1000 anni, potrai fare alla Juventus il danno d'immaggine che gli ho fatto io!? 

LO so che in Italia non ci sara` mai un Guariniello che indaga Guariniello, pero` se mai ce ne sara` uno, neanche la tua immaggine ne uscira` tanto bene.

Stammi bene, e salutami il fetido,"candido 'topo di fogna' cannavo", e` magari, se so quando viene a Catania, ci vado per dargli una sbirciatina, ma da lontano eh! Non vorrei che il fetore mi asfissiasse!
Communque grazie per il monito, vorra` dire che dovro` guardarmi sopra la spalla, del resto guardarsi alle spalle e`nell'istinto di noi siciliani. Ciao
Salvatore Giuliano
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Inviato, da Dalvadore (turiddu baciamo le mani don beccantini):
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PROCESSO FALLIMENTO BANCO AMBROSIANO 
Cassazione Penale Sent. n. 8327 del 14-07-1998
 
Il procedimento ha tratto origine dalla dichiarazione dello stato d'insolvenza del Banco Ambrosiano pronunciata il 25 agosto 1982 dal Tribunale di Milano, confermata poi, in appello, il 27 dicembre 1985, e resa definitiva dalla prima sezione della Corte di Cassazione il 7 luglio 1988.

1)-Osservava la Corte di Appello di Milano che nell'aprile 1981, quando già nel consiglio di amministrazione della Rizzoli era entrato a far parte l'avv. Giuseppe Prisco, in sostituzione di Tassan Din, Angelo Rizzoli aveva ceduto 1.200.000 azioni alla "Centrale", ma nello stesso giorno ne aveva acquistato il doppio attraverso una fiduciaria con un prestito ottenuto dallo lor.

2)-Osservava infine la Corte di Appello di Milano che, nonostante i pressanti e reiterati tentativi fatti dall'avvocato Chiaraviglio, portavoce di Calvi nelle trattative per indurre De Benedetti a lasciare il Banco Ambrosiano, e pur dopo l'intervento dell'avvocato Prisco, sempre dimostratosi solidale con Calvi, De Benedetti non aveva voluto modificare la motivazione della lettera di dimissioni da lui sottoscritta, motivazione che riproduceva una sua conclusiva constatazione, e cioè l'essere posto nella condizione di non poter esercitare le sue funzioni. (De Benedetti, assolto senza 

Cassazione Penale Sent. n. 8327 del 14-07-1998
http://www.credfed.it/rosi/cass-pen8327.htm

- *in anni 5 e mesi 4 di reclusione per Prisco*;  

3)-Quanto agli altri imputati la sentenza della Corte di Appello pronunciata il 16 giugno 1996, confermava altresì il giudizio di equivalenza tra le già concesse attenuanti generiche e le ravvisate aggravanti nei confronti di Pellicani Emilio, Cassella Gennaro, e riduceva le pene, determinandole, per Pellicani, in anni 4 e mesi 6 di reclusione, per Cassella in anni 4 e mesi 10 di reclusione; concedeva altresì le attenuanti generiche che erano state negate dal primo giudice a Bianchi Adriano, Di Mase Giacomo, Von Castelberg Carlo, "Prisco Giuseppe", Davoli Mario, Carboni Flavio, Bagnasco Orazio, che giudicava equivalenti alle circostanze aggravanti, e riduceva per tutti le pene, cosi determinandole:
 
- anni 4 e mesi 6 di reclusione per Bianchi, Von Castelberg, Ciarrapico, Davoli e Pellicani;
 
- in anni 4 e mesi 2 di reclusione per Bagnasco;
 
- in anni 4 e mesi 10 di reclusione per Di Mase e Cassella;
 
- in anni 5 e mesi 3 di reclusione per Mennini;
 
- *in anni 5 e mesi 4 di reclusione per Prisco*;  <---------
 
- in anni 5 e mesi 7 di reclusione per Valeni Manera;
 
- in anni 8 di reclusione per Mazzotta e per Pazienza;
 
- in anni 8 e mesi 6 di reclusione per Carboni;
 
- in anni 12 di reclusione per Gelli ed Ortolani.

Con la stessa sentenza venivano altresì confermate le statuizioni civili del primo giudice e veniva disposta la condanna al pagamento delle spese ed onorari in favore delle parti civili che erano intervenute nel giudizio di appello.
 
Avverso tale sentenza hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione sia gli imputati che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano.
 
Il Procuratore Generale ha denunciato, con il primo motivo, la violazione dell'art. 2358 c.c. in relazione all'art. 2630, comma 1, c.c., nei confronti di Bagnasco Orazio, Davoli Mano, Di Mase Giacomo, Prisco Giuseppe, Von Castelberg Carlo, in relazione al capo della sentenza impugnata e con la quale tali imputati erano stati assolti dal reato previsto dall'art. 223, n. 1, della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), sostenendo che la Corte di Appello aveva fornito un'interpretazione riduttiva del contenuto precettivo degli artt. 2630, primo comma, e 2358 c.c., non considerando che la società Suprafin rappresentava una struttura permanente disponibile, nella strategia di Calvi, al controllo della circolazione del titolo del Banco Ambrosiano, tant'è vero che tra il 1975 ed il 1979 erano stati disposti tre aumenti di capitale, ed ancora, sia nel 1981 che nel 1982 erano state cedute azioni che erano state poi collocate sul mercato, sicché il sostegno finanziario da parte del Banco Ambrosiano era stato costante e si era realizzato con il continuo avallo del Consiglio di amministrazione e del collegio sindacale.
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Prisco Giuseppe 
In relazione alla posizione dell'imputato Prisco Giuseppe sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Milano hanno dato particolare rilievo al fatto che l'imputato oltre ad avere assunto l'incarico di componente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano, analoghe funzioni aveva svolto dal luglio 1977 presso la società "Rizzoli Editore", perché ritenevano che tale duplice incarico aveva finito per porlo in una situazione privilegiata al fine di percepire le reali e progressive dimensioni del dissesto e le cause che lo avevano determinato.
 
Inoltre, la solidarietà manifestata dall'imputato nel confronti di Roberto Calvi ed in tutte le iniziative da questi assunte, solidarietà protrattasi anche dopo l'improvvisa scomparsa di quest'ultimo, è stata interpretata nelle conformi sentenze dei giudici di mento come sintomatica della complicità, indissociabile dal rapporto di intensa collaborazione che si era instaurato tra i due soggetti.
 
Secondo la ricostruzione dei giudici di mento, Prisco era entrato a far parte del consiglio di amministrazione della società Rizzoli come un uomo di assoluta fiducia di Calvi, e si era reso parte diligente per la nomina di Bruno Tassan Din a direttore generale di quella società, nel momento in cui Calvi, con la complicità di Gelli ed Ortolani, ne acquisiva il pieno controllo.
 
Nessuna iniziativa aveva assunto neppure quando la stampa aveva diffuso gli elenchi degli affiliati alla loggia massonica denominata "P2", e cioè quando aveva saputo che tutti i protagonisti di quell'operazione, effettuata attraverso cospicui finanziamenti da parte del Banco Ambrosiano, a quella loggia appartenevano.
 
Era altresì emerso che l'imputato non aveva esitato a solidarizzare con Calvi sia durante la detenzione che dopo la scarcerazione: durante la detenzione di Calvi, pur preoccupato di fronte alla necessità di sostituire questi alla guida della banca, non aveva assecondato il proposito di chi quella sostituzione voleva attuare, tant'è che, appena Calvi fu rimesso in libertà, fu proprio Prisco ad assumere l'iniziativa per dissuadere Mozzana da ogni diversa decisione, prospettando a chi non condivideva la sua opinione, che sostituire Calvi in quel momento poteva servire solo a voler significare che fondate erano le accuse che in quel procedimento la Procura di Milano aveva formulato.
 
Nella sentenza impugnata si evidenziava altresì che Prisco, in quel procedimento penale nel quale era stato direttamente coinvolto Calvi, aveva assunto la difesa del coimputato Valeri Manera, ed in tale veste, non aveva certo potuto ignorare la genesi del processo, le prove acquisite dall'accusa, le giustificazioni offerte dagli imputati, e, soprattutto, era stato informato del contenuto complessivo del rapporto del dr. Padalino, e, quindi, anche della parte che sino a quel momento era rimasta riservata, e nella quale si sottolineavano le preoccupazioni dell'ufficio ispettivo della Banca d'Italia sulle esposizioni debitorie del Banco Ambrosiano e si invocava una permanente e diffusa attività di efficace vigilanza, la cui necessità era resa evidente dalla scarsa collaborazione che era stata offerta, nella ricostruzione delle più rilevanti operazioni finanziarie.
 
L'imputato, inoltre, non aveva esitato nel solidarizzare con Calvi anche in occasione della vicenda conclusasi con le clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti, allorquando, con la mediazione dell'avvocato Chiaraviglio, si tentò ma senza alcun apprezzabile successo, di convincere De Benedetti a motivare le sue dimissioni in modo diverso, sì da occultare, ancora una volta, con quali criteri la banca veniva gestita; ed era stato ancora Prisco il promotore del comunicato diffuso al termine della riunione del consiglio di amministrazione del 17 febbraio 1982, quando in risposta al dubbi espressi dalla Banca d'Italia, dopo le dimissioni di De Benedetti, sulla capacità degli organi collegiali preposti all'amministrazione del Banco Ambrosiano di assumere, responsabilmente, autonome determinazioni, si manifestò stupore ed indignazione, quasi che i presupposti di fatto che quell'interrogativo giustificavano fossero stati artificiosamente creati per rappresentare una diversa realtà; e pur dopo la scomparsa di Calvi, quando già si profilava, in termini concreti la possibilità dell'amministrazione straordinaria, era stato Prisco nel corso di un incontro con il dr. Noto della sede milanese della Banca d'Italia a sconsigliare quella possibilità e, nel contempo, a manifestare il suo dissenso anche all'opzione alternativa, e cioè a quella di sostituire a Calvi Bagnasco.
 
Pertanto, sulla base di tali elementi, la Corte di Appello di Milano confermava la condanna dell'imputato per i reati a lui ascritti ai capi 1-A - B - C - D e, in considerazione dell'avvenuta transazione con le parti civili, concedeva le attenuanti generiche che valutava equivalenti alle contestate aggravanti e riduceva la pena ad anni cinque e mesi quattro di reclusione.
 
Quanto alla distrazione conseguente all'acquisto di azioni attraverso la società "Suprafin" (capo 1-E), si escludeva la partecipazione dell'imputato, essendo i finanziamenti avvenuti in epoca precedente al suo ingresso nel consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano.
 
La sintetica esposizione dei motivi sui quali è fondata la conferma della condanna del primo giudice si è resa necessaria al fini dell'analisi dei numerosi rilievi prospettati dalla difesa del ricorrente, ed affidati ai motivi principali, a quelli aggiunti e ad un'analitica e diffusa memoria.
 
L'imputato ha, innanzi tutto, denunciato l'errata applicazione dell'art. 216, comma 1, n. 1, della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), sostenendo che la sentenza impugnata era pervenuta a quelle conclusioni unicamente perché aveva ritenuto configurabile il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione allorquando l'atto dispositivo non rientra nell'oggetto sociale e si rivela pregiudizievole per gli interessi economici dell'impresa e non aveva dato, invece, alcuna rilevanza al fatto che le operazioni finanziarie approvate dal consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano erano state deliberate quando lo stato d'insolvenza non ancora esisteva o, comunque, non si era manifestato.
 
Ed attraverso tale lacunosa indagine, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata aveva finito per dissociare il dolo della bancarotta da un suo essenziale presupposto, e cioè la preventiva conoscenza dell'insolvenza dell'azienda.
 
Osserva la Corte che il rilievo, riproponendo all'attenzione del Collegio una problematica che ha remote origini e che in dottrina ha suscitato controverse soluzioni, non è in alcun modo condivisibile: ai fini della sua stessa prospettazione sono carenti i presupposti di fatto sul quali quel rilievo è fondato, posto che, come già si è osservato, la solidarietà manifestata dall'imputato a Calvi ed ai criteri da questi seguiti nella gestione della banca è stata espressa, con indubbia continuità, sino al 13 giugno 1982, quando ormai la prospettiva dello scioglimento degli organi amministrativi era divenuta una concreta realtà e quando le cause che quell'evento preannunciavano erano evidenti.
 
Sarebbe, quindi, arbitrario ridurre il contributo offerto dall'imputato nell'amministrazione del Banco Ambrosiano ad episodi precedenti al 1980, e cioè ad un periodo che precede la manifestazione dello stato d'insolvenza, quando, invece, è dimostrato, e d'altronde neppure l'imputato lo ha mai contestato, che la sua permanenza nel consiglio di amministrazione è cessata soltanto quando il Banco Ambrosiano fu sottoposto ad amministrazione straordinaria.
 
Inoltre, il rilievo dedotto dal ricorrente finisce per attribuire rilevanza penale all'atto dispositivo compiuto dall'imprenditore commerciale solo allorquando l'insolvenza si è oggettivamente manifestata nelle sue reali dimensioni ed è stata percepita.
 
Ma la giurisprudenza di questa Corte, formatasi sulla base di un'attenta interpretazione della norma incriminatrice, si è da tempo orientata, ed in maniera sempre più costante, nell'affermare che tutte le ipotesi alternative previste nell'art. 216, comma 1, n. 1, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di quelle ipotesi la legge richiede un nesso causale tra la condotta dell'autore ed il dissesto dell'impresa, sicché né la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta.
 
Non va dimenticato che il fallimento, al quale va equiparata la liquidazione coatta amministrativa, non costituisce affatto l'evento del reato di bancarotta, sicché arbitrario sarebbe pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, ed il fallimento.
 
E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di siffatto rapporto, lo ha previsto espressamente, non sottraendosi all'onere di indicare entro quali limiti temporali la condotta può assumere rilievo penale: basti pensare alla bancarotta semplice documentale (art. 217 comma 2, della legge fallimentare), ipotesi in cui è il triennio precedente alla dichiarazione di fallimento il perimetro entro il quale può trovare legittimo spazio l'indagine conoscitiva del giudice penale.
 
D'altronde, come più volte questa Corte ha ribadito (cfr. Sez. V, 26 giugno 1990 ric.. Berdoni, etc.), se si accettasse una diversa soluzione, verrebbe compromesso l'ineludibile principio del rispetto della tassatività della fattispecie penale, giacché nella stessa avrebbe rilevanza una condizione che, se pur proiettata verso un evento certo, quale la dichiarazione di fallimento, utilizzerebbe un elemento del tutto arbitrario, affidato ad una soggettiva valutazione, quale l'individuazione del periodo "prossimo" alla dichiarazione di fallimento.
 
Né, per giustificare una diversa conclusione, può essere utile o determinante obiettare che, l'imprenditore, al pari di ogni altro soggetto, conserva la libera disponibilità dei beni almeno sino all'insorgenza dello stato d'insolvenza: la previsione normativa del reato di bancarotta fraudolenta non disconosce quel diritto, né, tantomeno, il suo legittimo esercizio, funzionale alla realizzazione delle scelte imprenditoriali: ciò che l'ordinamento vuol salvaguardare è soltanto che l'esercizio di quel diritto sia correlato agli interessi economici dell'impresa.
 
Quando da tali interessi si prescinde, per perseguire finalità che nulla hanno a che vedere con l'oggetto sociale, e nel contempo le scelte effettuate determinano o aggravano una diminuzione delle risorse patrimoniali, ci si pone nell'area di una potenziale illegittimità penale, perché già si compromettono le legittime aspettative dei creditori e si espone a rischio la stessa sopravvivenza dell'impresa.
 
E quando sopraggiunge l'accertamento giudiziale dell'insolvenza, l'atto dispositivo si identifica in una distrazione di attività, perché quell'accertamento, lungi dal costituire l'evento del reato, cristallizza gli effetti patrimoniali negativi che ne sono conseguiti, quale che sia l'epoca in cui quella scelta è stata compiuta.

E non sussistendo apprezzabili motivi per dissentire da tale conclusione che rappresenta, come già si è rilevato, il risultato di una costante elaborazione giurisprudenziale, essa va in questa sede riaffermata e del tutto superfluo appare rimettere la decisone del problema prospettato dal ricorrente al vaglio delle Sezioni Unite, così come da lui richiesto.
 
Neppure meritevole di accoglimento è il secondo motivo di ricorso e con il quale la difesa dell'imputato ha denunciato l'erronea applicazione dell'art. 314 c.p.p., in relazione al diniego di una consulenza tecnica.
 
Come già si è avuto modo di precisare, la Corte di Appello di Milano, sia nella sentenza del 10 giugno 1996. che nell'ordinanza del 5 giugno 1996 - entrambe impugnate dall'imputato - aveva ritenuto superfluo un accertamento tecnico sullo stato d'insolvenza del Banco Ambrosiano e sulla ricognizione delle cause che lo avevano determinato, osservando che le risultanze acquisite non proponevano, a tal riguardo, elementi di incertezza: la ricostruzione delle operazioni finanziarie che quel dissesto avevano provocato o aggravato era stata compiuta da un organo tecnicamente qualificato, quale il collegio dei commissari liquidatori e la documentazione acquisita anche dalle consociate estere del Banco Ambrosiano suffragava quelle conclusive indicazioni.
 
Pertanto, la superfluità di un accertamento tecnico è stata congruamente motivata anche alla luce della rinnovata formulazione dell'originario contenuto dell'art. 314 c.p.p., e, come tale, si sottrae al sindacato di questa Corte, in quanto l'obbligo di provvedere ad un accertamento tecnico, nel giudizio, è sempre subordinato alla ravvisata necessità di un'indagine che richieda particolari cognizioni.
 
Con il terzo motivo di ricorso l'imputato ha dedotto l'omessa e la contraddittorietà di motivazione dell'impugnata sentenza, sostenendo, e con articolate argomentazioni, illustrate anche nella successiva memoria, che si era omesso di considerare che la condotta realizzata era il risultato di un inganno, in quanto la patologia dei finanziamenti era costituita dal fatto che essi avevano una destinazione diversa rispetto a quella dichiarata e, quindi, nota al consiglio di amministrazione, e che tutto l'apparato estero del Banco Ambrosiano era stato organizzato in modo da operare nella maggiore segretezza possibile.
 
Ha inoltre osservato il ricorrente che tutte le pratiche venivano istruite dall'organo tecnico ed erano corredate dal relativi pareri favorevoli e che, comunque, durante la sua permanenza nel consiglio di amministrazione, non tutti i finanziamenti erano passati al vaglio di tale organo, ma soltanto quelli per importi superiori ai diciotto miliardi. Infine, quanto alla condanna per il reato di bancarotta documentale, l'imputato ha osservato che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare che i bilanci e le relazioni venivano predisposti sempre da organi tecnici e che, quanto al rendiconto, nella lettera del giorno 8 luglio 1982 si era segnalata l'impossibilità di una completa ricostruzione, sicché carente era stata l'indagine sia in relazione alla ricostruzione oggettiva dei fatti, che in merito alla ricerca e valutazione dell'elemento psicologico del reato.
 
Osserva la Corte che nessuno dei rilievi su esposti è condivisibile.
Le circostanze indicate dal ricorrente non sono state trascurate dai giudici di merito, ma sono state ritenute ininfluenti ai fini dell'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato in relazione alle varie ipotesi contestate, perché si è considerato che la condotta manifestata dell'imputato sia nel corso del biennio in cui aveva rivestito l'incarico di componente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano, e cioè dal 12 aprile 1980 al 17 giugno 1982, che nel precedente e maggior periodo in cui analogo incarico, per volontà di Calvi, aveva ricoperto presso la società Rizzoli Editrice, vi era stata sempre un'incondizionata accettazione delle iniziative assunte da Calvi, benché tutta una serie di circostanze avrebbero dovuto indurre chi a quell'ufficio era preposto ad attivarsi per un corretto adempimento dei propri doveri.
 
Lungi, quindi, dall'ipotizzare una condotta omissiva, espressione dell'altrui inganno, i giudici del merito hanno evidenziato come il comportamento dell'imputato assumeva la più grave connotazione di una consapevole connivenza, in quanto la solidarietà manifestata a Calvi e sino a dopo la scomparsa dello stesso, non si esauriva nell'ambito riduttivo di un rapporto intersoggettivo, ma comprendeva l'attività amministrativa concretamente espletata dal banchiere, tant'è vero che era stato proprio l'imputato, come già si è notato, a protestare con la Banca d'Italia quando questa nel febbraio 1982, aveva sollecitato il consiglio di amministrazione ed il collegio sindacale all'effettivo esercizio delle loro funzioni.
 
E se vero è che, come affermato dal ricorrente, la patologia dei finanziamenti consisteva nella destinazione a finalità diverse da quelle dichiarate, è altrettanto indubbio che l'occultamento delle reali destinazioni, almeno in relazione alle operazioni per impadronirsi del controllo della società Rizzoli non potevano sfuggire a chi, come Prisco, della gestione di questa società era partecipe e tale era diventato per volontà di Calvi, e per giunta con poteri di veto che accrescevano ma non certo attenuavano i poteri decisori.
 
Se poi in tale quadro si inseriscono, come è stato doverosamente fatto dai giudici di merito, tutte le altre circostanze che proprio dal 1980 al 1982 si erano manifestate e che erano univocamente sintomatiche dei metodi fraudolenti con i quali veniva gestita la banca, non si vede in quale vizio di motivazione sia incorsa l'impugnata sentenza allorquando da quelle circostanze ha tratto la convinzione che Prisco, più di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione, e per le ragioni su esposte, era a conoscenza di quella realtà, della quale aveva avuto diretta esperienza qualche anno prima, quando cioè aveva accettato di essere il patrocinatore degli interessi di Calvi e dei suoi collaboratori nella Rizzoli, interessi che nulla avevano a che vedere con le finalità speculative di una banca.
 
E tale maturata consapevolezza, vivificata dal susseguirsi di una serie di vicende che nella loro efficacia sintomatica si armonizzavano nella stessa direzione, non poteva non essere utile anche al fini della ricerca e della valutazione dell'elemento psicologico richiesto per la configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale.
 
La Corte di Appello di Milano non ha ignorato che al vaglio del consiglio di amministrazione erano sottoposti soltanto i finanziamenti che superavano l'importo di diciotto miliardi, né che i bilanci e le relazioni erano redatte da organi tecnici che operavano alle dirette dipendenze di Calvi, ma ha motivatamente escluso che entrambe tali circostanze potessero far dubitare della colpevolezza dell'imputato: molti depositi fiduciari superavano quell'importo ed erano stati approvati dal consiglio del quale Prisco faceva parte, come pure era avvenuto per alcuni finanziamenti a favore di imprese che operavano in Italia e per quelli erogati alle consociate estere del Banco Ambrosiano, nonostante i reiterati ed allarmanti rilievi della Banca d'Italia.
 
Il coinvolgimento di Calvi in quel procedimento penale che evocava non personali iniziative, ma pregiudicate scelte operative che coinvolgevano direttamente il Banco Ambrosiano, il Credito Varesino, la Banca del Gottardo e le società Toro Assicurazioni, e quindi l'intero gruppo, accusato, e non senza fondamento, di avere illecitamente esportato oltre 23 miliardi di lire, era già sintomatico di una disinvolta gestione, non certamente sensibile al rispetto della trasparenza, e soprattutto degli stessi interessi della banca; ma se poi in tale contesto si inseriva la relazione del dr. Padalino che illustrava i dubbi e le gravi perplessità anche sulla destinazione del denaro erogato alle consociate estere del Banco Ambrosiano, vi erano ragioni più che sufficienti per dubitare della correttezza formale e sostanziale di quelle operazioni e, quindi, per sollecitare una doverosa attenzione di chi era preposto alla loro approvazione e verifica.
 
Ne consegue che sotto tale profilo i rilievi dedotti dal ricorrente non sono condivisibili, perché le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Appello di Milano non sono fondate su mere congetture, né su arbitrarie ipotesi, ma sono soltanto il risultato logico dell'analisi corretta e completa delle risultanze acquisite.
 
E d'altronde, è pur vero che, come ha sostenuto la difesa del ricorrente, le bozze dei bilanci venivano predisposte materialmente dagli uffici tecnici della banca, ma è altrettanto incontestabile che all'onere della loro verifica doveva provvedere il consiglio di amministrazione e quest'onere, attesa l'esistenza di quei gravi indici di allarme, imponeva un adeguato controllo che non poteva certamente esaurirsi in una cieca accettazione dei dati contabili rappresentati da chi aveva interesse ad occultare la realtà.
 
La sentenza impugnata, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha certamente ignorato né il contenuto della relazione del dr. Desario che segnalava una riduzione dei finanziamenti del Banco Ambrosiano alle consociate estere, né tantomeno la riconducibilità dell'iniziativa di costituire un comitato esecutivo che avrebbe dovuto limitare i poteri di Calvi. Ma la sentenza impugnata ha dovuto prendere atto - e la circostanza è documentalmente provata - che il contenuto del rapporto Desario fu reso noto dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza e, comunque, non esponeva che una parte della verità, perché se diminuiti erano i finanziamenti diretti, aumentati risultavano quelli indiretti, e quanto al comitato esecutivo, esso non aveva di fatto esercitato le funzioni per le quali era stato concepito, perché in realtà si era trattato di un mero espediente tattico escogitato da chi, come Prisco, voleva conservare Calvi alla guida della banca e, nel contempo, offrire all'organo di vigilanza la parvenza di un valido ed efficace tentativo per ricondurre la gestione dell'azienda nel binario della legalità dopo le note vicende che avevano determinato l'arresto di Calvi.
 
Ed una volta escluso che il fallimento sia un elemento costitutivo della fattispecie, non può che convenirsi con quanto affermato nell'impugnata sentenza, e cioè che non era in alcun modo necessario dimostrare, da parte dell'accusa, un nesso tra la condotta ed i suoi effetti, una volta accertato che le attività del Banco Ambrosiano, con la compiacente e costante collaborazione dell'imputato, venivano destinate a finalità diverse da quelle consentite e che tale consapevolezza si ripercuoteva, necessariamente, sulla falsa ed ingannevole rappresentazione della realtà, rappresentazione difesa sino all'ultimo, nonostante le diverse e reiterate insistenze dell'organo di vigilanza, preposto alla tutela di pubblici interessi, e di chi, come De Benedetti, aveva invano chiesto di essere posto al corrente della reale situazione economico-finanziaria del Banco Ambrosiano sei mesi prima che il dissesto fosse accertato dall'autorità giudiziaria competente.
 
Quanto, infine, alla sottoscrizione del falso rendiconto, le giustificazioni offerte dall'imputato sono state motivatamente disattese, una volta accertatosi che erano stati utilizzati i risultati contabili contenuti nel bilancio del 1981 e si era perpetrata una valutazione artificiosa della partecipazione nella holding lussemburghese e dei crediti vantati verso le consociate estere ed i beneficiari dei vari finanziamenti, erogati senza opportune garanzie e destinati, non di rado, a fini diversi da quelli dichiarati.
 
Il rendiconto presentato ai commissari liquidatori il 20 luglio 1982 altro non doveva contenere che la rappresentazione sintetica della situazione contabile maturatasi dopo l'approvazione dell'ultimo bilancio, sicché almeno in quella sede si aveva l'opportunità di abbattere il veto protettivo del silenzio sulla reale condizione della banca e se ciò non avvenne non fu certo per l'impossibilità materiale di farlo, bensì per l'avvertita esigenza di perpetuare una rappresentazione che doveva occultare come il patrimonio del Banco Ambrosiano fosse stato già tutto inghiottito dalle perdite due anni prima, cioè nel 1980, e che le successive operazioni, giustificate dai più disparati interessi, incompatibili certamente con un reale programma di risanamento, avevano avuto un solo risultato, e cioè quello di consolidare l'indebitamento, aumentandone progressivamente la consistenza.
 
È stato questo il percorso logico seguito dall'impugnata sentenza, sicché non solo non emergono aspetti di manifestata illogicità, ma neppure risultano sottratte alla doverosa analisi dei giudici dell'appello circostanze rilevanti, potenzialmente idonee a giustificare una diversa decisione.
 
È del pari destituito di qualsiasi fondamento il rilievo dedotto dal ricorrente nei motivi aggiunti, in relazione alla valutazione dell'elemento psicologico del reato, posto che nella sentenza impugnata la condotta ascrivibile all'imputato non è stata ricostruita nell'ambito riduttivo di un comportamento negligente, non attento ai segnali d'allarme.
 
Esso è stato ritenuto sintomatico di una volontaria adesione alle scelte operative di Calvi, nella piena consapevolezza che il risultato di quelle scelte era la sottrazione di attività dal patrimonio della banca, sottrazione della quale l'imputato era stato un indiretto beneficiario e, nel contempo, attento ed interessato testimone, quando nel consiglio di amministrazione della Rizzoli Editore non potè non percepire l'interesse di Calvi e dei suoi complici ad ottenere il controllo di quella società, attraverso finanziamenti che nulla avevano a che vedere con le attività speculative del Banco Ambrosiano.
 
Né a diversa conclusione poteva pervenirsi sulla base della conclusione giudiziaria del procedimento che aveva visto coinvolto lo stesso imputato nella bancarotta conseguente alla dichiarazione d'insolvenza della società Rizzoli, posto che in quel procedimento non era in discussione la genesi dei finanziamenti del Banco Ambrosiano, né i motivi che li avevano giustificati, bensì soltanto la loro effettiva destinazione.
 
E quanto alla quotazione in borsa delle azioni del Banco Ambrosiano, quell'operazione non rappresentava certo la prova del definitivo superamento di una situazione di crisi, quanto, piuttosto, lo strumento al quale la Banca d'Italia aveva fatto ricorso per ottenere alcuni adempimenti formali, quale la presentazione di un bilancio consolidato, che, secondo le intenzioni dei proponenti, doveva servire per ottenere una meno incompleta rappresentazione delle esposizioni debitorie all'estero, aspettativa delusa dal massiccio ricorso ai finanziamenti interbancari.
 
Pertanto, anche sotto tale aspetto la sentenza impugnata si sottrae ai rilievi del ricorrente.
 
Quanto infine all'ultimo motivo di censura, concernente il giudizio di comparazione e la determinazione della pena, il ricorso è ai limiti dell'ammissibilità, posto che attraverso i rilievi dedotti si propone alla Corte una rivalutazione complessiva del fatto e della personalità del colpevole al fine di pervenire ad una più favorevole decisione: ma tale rivalutazione è preclusa in questa sede.
 
La sentenza impugnata ha riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche, valutando positivamente il suo comportamento processuale, ma ha giudicato tali attenuanti equivalenti alle contestate aggravanti in considerazione non solo dell'oggettiva gravità dei fatti accertati, ma soprattutto dell'attivo ed autorevole contributo offerto da Prisco alla loro realizzazione e tale valutazione è in questa sede incensurabile.
 
Né risulta che al fini della concreta determinazione della pena la sentenza impugnata non abbia utilizzato legittimamente i criteri previsti dall'art. 133 c.p., posto che ha tenuto conto, espressamente, sia della gravità dei reati accertati, desumendola dalle modalità con le quali si era esplicata la condotta, oltre che dalla gravità complessiva del danno arrecato, che della capacità a delinquere dell'imputato, negativamente caratterizzata dalla stessa reiterazione della condotta delittuosa: ne consegue che il potere discrezionale del giudice di merito è stato legittimamente esercitato e le conclusioni alle quali è pervenuto sono correttamente motivate.
 
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 CASSAZIONE
Ai componenti del consiglio di amministrazione, e quindi ai ricorrenti Bagnasco, Prisco, Valeri Manera, Von Castelberg e Di Mase, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Milano hanno attribuito, a titolo di dolo eventuale, una responsabilità diretta nelle distrazioni conseguenti a tutte e tre le forme di deposito contestate dall'accusa, e cioè i depositi diretti a favore di società estere, possedute attraverso le consociate estere (capo 1-A), quelli fiduciari, effettuati attraverso altre banche estere (capo 1-B) ed i fidi concessi in Italia a vani beneficiari (capo 1-C).

Gli stessi imputati erano stati ritenuti colpevoli anche del reato previsto dall'art. 216 comma 1, n. 2, della legge fallimentare, per aver esposto nelle relazioni, nei bilanci e nel rendiconto presentato ai commissari liquidatori il 20 luglio 1982 fatti non rispondenti al vero in ordine alle effettive condizioni dell'azienda (capo 1-D).

Rigetta i ricorsi di Gelli Licio, Ortolani Umberto, Bianchi Adriano, Cassella Gennaro, Ciarrapico Giuseppe, Mennini Alessandro, Pellicani Emilio, Valeri Manera Mario, Di Mase Giacomo, Prisco Giuseppe, Von Castelberg Carlo, Davoli Mario, Carboni Flavio e Mazzotta Maurizio e condanna tutti costoro, in solido, alle spese del procedimento e ciascuno al versamento della somma di lire cinquecentomila in favore della Cassa delle ammende.

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Senza commenti. Dice Tutto l'immaggine


Roberto beccantini e il dr.Watson e a sherlokko ndo u lassasti? La scoperta del delitti del tuo idolo (peppino prisco) ti ha sorpeso"

 In difesa della mia compagna di viaggio


contro il suo peggior nemico: Roberto Beccantini!

Cassazione Penale Sent. n. 8327 del 14-07-1998
Isnsolvenza (fallimento Banco Ambrosiano, Svolgimento del Processo
 Prisco Giuseppe: Condanna e motivazione

Prisco Giuseppe
In relazione alla posizione dell'imputato Prisco Giuseppe sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Milano hanno dato particolare rilievo al fatto che l'imputato oltre ad avere assunto l'incarico di componente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano, analoghe funzioni aveva svolto dal luglio 1977 presso la società "Rizzoli Editore", perché ritenevano che tale duplice incarico aveva finito per porlo in una situazione privilegiata al fine di percepire le reali e progressive dimensioni del dissesto e le cause che lo avevano determinato.

Inoltre, la solidarietà manifestata dall'imputato nel confronti di Roberto Calvi ed in tutte le iniziative da questi assunte, solidarietà protrattasi anche dopo l'improvvisa scomparsa di quest'ultimo, è stata interpretata nelle conformi sentenze dei giudici di mento come sintomatica della complicità, indissociabile dal rapporto di intensa collaborazione che si era instaurato tra i due soggetti.

Secondo la ricostruzione dei giudici di mento, Prisco era entrato a far parte del consiglio di amministrazione della società Rizzoli come un uomo di assoluta fiducia di Calvi, e si era reso parte diligente per la nomina di Bruno Tassan Din a direttore generale di quella società, nel momento in cui Calvi, con la complicità di Gelli ed Ortolani, ne acquisiva il pieno controllo.

Nessuna iniziativa aveva assunto neppure quando la stampa aveva diffuso gli elenchi degli affiliati alla loggia massonica denominata "P2", e cioè quando aveva saputo che tutti i protagonisti di quell'operazione, effettuata attraverso cospicui finanziamenti da parte del Banco Ambrosiano, a quella loggia appartenevano.

Era altresì emerso che l'imputato non aveva esitato a solidarizzare con Calvi sia durante la detenzione che dopo la scarcerazione: durante la detenzione di Calvi, pur preoccupato di fronte alla necessità di sostituire questi alla guida della banca, non aveva assecondato il proposito di chi quella sostituzione voleva attuare, tant'è che, appena Calvi fu rimesso in libertà, fu proprio Prisco ad assumere l'iniziativa per dissuadere Mozzana da ogni diversa decisione, prospettando a chi non condivideva la sua opinione, che sostituire Calvi in quel momento poteva servire solo a voler significare che fondate erano le accuse che in quel procedimento la Procura di Milano aveva formulato.

Nella sentenza impugnata si evidenziava altresì che Prisco, in quel procedimento penale nel quale era stato direttamente coinvolto Calvi, aveva assunto la difesa del coimputato Valeri Manera, ed in tale veste, non aveva certo potuto ignorare la genesi del processo, le prove acquisite dall'accusa, le giustificazioni offerte dagli imputati, e, soprattutto, era stato informato del contenuto complessivo del rapporto del dr. Padalino, e, quindi, anche della parte che sino a quel momento era rimasta riservata, e nella quale si sottolineavano le preoccupazioni dell'ufficio ispettivo della Banca d'Italia sulle esposizioni debitorie del Banco Ambrosiano e si invocava una permanente e diffusa attività di efficace vigilanza, la cui necessità era resa evidente dalla scarsa collaborazione che era stata offerta, nella ricostruzione delle più rilevanti operazioni finanziarie.

L'imputato, inoltre, non aveva esitato nel solidarizzare con Calvi anche in occasione della vicenda conclusasi con le clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti, allorquando, con la mediazione dell'avvocato Chiaraviglio, si tentò ma senza alcun apprezzabile successo, di convincere De Benedetti a motivare le sue dimissioni in modo diverso, sì da occultare, ancora una volta, con quali criteri la banca veniva gestita; ed era stato ancora Prisco il promotore del comunicato diffuso al termine della riunione del consiglio di amministrazione del 17 febbraio 1982, quando in risposta al dubbi espressi dalla Banca d'Italia, dopo le dimissioni di De Benedetti, sulla capacità degli organi collegiali preposti all'amministrazione del Banco Ambrosiano di assumere, responsabilmente, autonome determinazioni, si manifestò stupore ed indignazione, quasi che i presupposti di fatto che quell'interrogativo giustificavano fossero stati artificiosamente creati per rappresentare una diversa realtà; e pur dopo la scomparsa di Calvi, quando già si profilava, in termini concreti la possibilità dell'amministrazione straordinaria, era stato Prisco nel corso di un incontro con il dr. Noto della sede milanese della Banca d'Italia a sconsigliare quella possibilità e, nel contempo, a manifestare il suo dissenso anche all'opzione alternativa, e cioè a quella di sostituire a Calvi Bagnasco.

Pertanto, sulla base di tali elementi, la Corte di Appello di Milano confermava la condanna dell'imputato per i reati a lui ascritti ai capi 1-A - B - C - D e, in considerazione dell'avvenuta transazione con le parti civili, concedeva le attenuanti generiche che valutava equivalenti alle contestate aggravanti e riduceva la pena ad anni cinque e mesi quattro di reclusione.

Quanto alla distrazione conseguente all'acquisto di azioni attraverso la società "Suprafin" (capo 1-E), si escludeva la partecipazione dell'imputato, essendo i finanziamenti avvenuti in epoca precedente al suo ingresso nel consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano.

La sintetica esposizione dei motivi sui quali è fondata la conferma della condanna del primo giudice si è resa necessaria al fini dell'analisi dei numerosi rilievi prospettati dalla difesa del ricorrente, ed affidati ai motivi principali, a quelli aggiunti e ad un'analitica e diffusa memoria.

L'imputato ha, innanzi tutto, denunciato l'errata applicazione dell'art. 216, comma 1, n. 1, della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), sostenendo che la sentenza impugnata era pervenuta a quelle conclusioni unicamente perché aveva ritenuto configurabile il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione allorquando l'atto dispositivo non rientra nell'oggetto sociale e si rivela pregiudizievole per gli interessi economici dell'impresa e non aveva dato, invece, alcuna rilevanza al fatto che le operazioni finanziarie approvate dal consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano erano state deliberate quando lo stato d'insolvenza non ancora esisteva o, comunque, non si era manifestato.

Ed attraverso tale lacunosa indagine, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata aveva finito per dissociare il dolo della bancarotta da un suo essenziale presupposto, e cioè la preventiva conoscenza dell'insolvenza dell'azienda.

Osserva la Corte che il rilievo, riproponendo all'attenzione del Collegio una problematica che ha remote origini e che in dottrina ha suscitato controverse soluzioni, non è in alcun modo condivisibile: ai fini della sua stessa prospettazione sono carenti i presupposti di fatto sul quali quel rilievo è fondato, posto che, come già si è osservato, la solidarietà manifestata dall'imputato a Calvi ed ai criteri da questi seguiti nella gestione della banca è stata espressa, con indubbia continuità, sino al 13 giugno 1982, quando ormai la prospettiva dello scioglimento degli organi amministrativi era divenuta una concreta realtà e quando le cause che quell'evento preannunciavano erano evidenti.

Sarebbe, quindi, arbitrario ridurre il contributo offerto dall'imputato nell'amministrazione del Banco Ambrosiano ad episodi precedenti al 1980, e cioè ad un periodo che precede la manifestazione dello stato d'insolvenza, quando, invece, è dimostrato, e d'altronde neppure l'imputato lo ha mai contestato, che la sua permanenza nel consiglio di amministrazione è cessata soltanto quando il Banco Ambrosiano fu sottoposto ad amministrazione straordinaria.

Inoltre, il rilievo dedotto dal ricorrente finisce per attribuire rilevanza penale all'atto dispositivo compiuto dall'imprenditore commerciale solo allorquando l'insolvenza si è oggettivamente manifestata nelle sue reali dimensioni ed è stata percepita.

Ma la giurisprudenza di questa Corte, formatasi sulla base di un'attenta interpretazione della norma incriminatrice, si è da tempo orientata, ed in maniera sempre più costante, nell'affermare che tutte le ipotesi alternative previste nell'art. 216, comma 1, n. 1, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di quelle ipotesi la legge richiede un nesso causale tra la condotta dell'autore ed il dissesto dell'impresa, sicché né la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta.

Non va dimenticato che il fallimento, al quale va equiparata la liquidazione coatta amministrativa, non costituisce affatto l'evento del reato di bancarotta, sicché arbitrario sarebbe pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, ed il fallimento.

E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di siffatto rapporto, lo ha previsto espressamente, non sottraendosi all'onere di indicare entro quali limiti temporali la condotta può assumere rilievo penale: basti pensare alla bancarotta semplice documentale (art. 217 comma 2, della legge fallimentare), ipotesi in cui è il triennio precedente alla dichiarazione di fallimento il perimetro entro il quale può trovare legittimo spazio l'indagine conoscitiva del giudice penale.

D'altronde, come più volte questa Corte ha ribadito (cfr. Sez. V, 26 giugno 1990 ric.. Berdoni, etc.), se si accettasse una diversa soluzione, verrebbe compromesso l'ineludibile principio del rispetto della tassatività della fattispecie penale, giacché nella stessa avrebbe rilevanza una condizione che, se pur proiettata verso un evento certo, quale la dichiarazione di fallimento, utilizzerebbe un elemento del tutto arbitrario, affidato ad una soggettiva valutazione, quale l'individuazione del periodo "prossimo" alla dichiarazione di fallimento.

Né, per giustificare una diversa conclusione, può essere utile o determinante obiettare che, l'imprenditore, al pari di ogni altro soggetto, conserva la libera disponibilità dei beni almeno sino all'insorgenza dello stato d'insolvenza: la previsione normativa del reato di bancarotta fraudolenta non disconosce quel diritto, né, tantomeno, il suo legittimo esercizio, funzionale alla realizzazione delle scelte imprenditoriali: ciò che l'ordinamento vuol salvaguardare è soltanto che l'esercizio di quel diritto sia correlato agli interessi economici dell'impresa.

Quando da tali interessi si prescinde, per perseguire finalità che nulla hanno a che vedere con l'oggetto sociale, e nel contempo le scelte effettuate determinano o aggravano una diminuzione delle risorse patrimoniali, ci si pone nell'area di una potenziale illegittimità penale, perché già si compromettono le legittime aspettative dei creditori e si espone a rischio la stessa sopravvivenza dell'impresa.

E quando sopraggiunge l'accertamento giudiziale dell'insolvenza, l'atto dispositivo si identifica in una distrazione di attività, perché quell'accertamento, lungi dal costituire l'evento del reato, cristallizza gli effetti patrimoniali negativi che ne sono conseguiti, quale che sia l'epoca in cui quella scelta è stata compiuta.

E non sussistendo apprezzabili motivi per dissentire da tale conclusione che rappresenta, come già si è rilevato, il risultato di una costante elaborazione giurisprudenziale, essa va in questa sede riaffermata e del tutto superfluo appare rimettere la decisone del problema prospettato dal ricorrente al vaglio delle Sezioni Unite, così come da lui richiesto.

Neppure meritevole di accoglimento è il secondo motivo di ricorso e con il quale la difesa dell'imputato ha denunciato l'erronea applicazione dell'art. 314 c.p.p., in relazione al diniego di una consulenza tecnica.

Come già si è avuto modo di precisare, la Corte di Appello di Milano, sia nella sentenza del 10 giugno 1996. che nell'ordinanza del 5 giugno 1996 - entrambe impugnate dall'imputato - aveva ritenuto superfluo un accertamento tecnico sullo stato d'insolvenza del Banco Ambrosiano e sulla ricognizione delle cause che lo avevano determinato, osservando che le risultanze acquisite non proponevano, a tal riguardo, elementi di incertezza: la ricostruzione delle operazioni finanziarie che quel dissesto avevano provocato o aggravato era stata compiuta da un organo tecnicamente qualificato, quale il collegio dei commissari liquidatori e la documentazione acquisita anche dalle consociate estere del Banco Ambrosiano suffragava quelle conclusive indicazioni.

Pertanto, la superfluità di un accertamento tecnico è stata congruamente motivata anche alla luce della rinnovata formulazione dell'originario contenuto dell'art. 314 c.p.p., e, come tale, si sottrae al sindacato di questa Corte, in quanto l'obbligo di provvedere ad un accertamento tecnico, nel giudizio, è sempre subordinato alla ravvisata necessità di un'indagine che richieda particolari cognizioni.

Con il terzo motivo di ricorso l'imputato ha dedotto l'omessa e la contraddittorietà di motivazione dell'impugnata sentenza, sostenendo, e con articolate argomentazioni, illustrate anche nella successiva memoria, che si era omesso di considerare che la condotta realizzata era il risultato di un inganno, in quanto la patologia dei finanziamenti era costituita dal fatto che essi avevano una destinazione diversa rispetto a quella dichiarata e, quindi, nota al consiglio di amministrazione, e che tutto l'apparato estero del Banco Ambrosiano era stato organizzato in modo da operare nella maggiore segretezza possibile.

Ha inoltre osservato il ricorrente che tutte le pratiche venivano istruite dall'organo tecnico ed erano corredate dal relativi pareri favorevoli e che, comunque, durante la sua permanenza nel consiglio di amministrazione, non tutti i finanziamenti erano passati al vaglio di tale organo, ma soltanto quelli per importi superiori ai diciotto miliardi. Infine, quanto alla condanna per il reato di bancarotta documentale, l'imputato ha osservato che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare che i bilanci e le relazioni venivano predisposti sempre da organi tecnici e che, quanto al rendiconto, nella lettera del giorno 8 luglio 1982 si era segnalata l'impossibilità di una completa ricostruzione, sicché carente era stata l'indagine sia in relazione alla ricostruzione oggettiva dei fatti, che in merito alla ricerca e valutazione dell'elemento psicologico del reato.

Osserva la Corte che nessuno dei rilievi su esposti è condivisibile.

Le circostanze indicate dal ricorrente non sono state trascurate dai giudici di merito, ma sono state ritenute ininfluenti ai fini dell'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato in relazione alle varie ipotesi contestate, perché si è considerato che la condotta manifestata dell'imputato sia nel corso del biennio in cui aveva rivestito l'incarico di componente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano, e cioè dal 12 aprile 1980 al 17 giugno 1982, che nel precedente e maggior periodo in cui analogo incarico, per volontà di Calvi, aveva ricoperto presso la società Rizzoli Editrice, vi era stata sempre un'incondizionata accettazione delle iniziative assunte da Calvi, benché tutta una serie di circostanze avrebbero dovuto indurre chi a quell'ufficio era preposto ad attivarsi per un corretto adempimento dei propri doveri.

Lungi, quindi, dall'ipotizzare una condotta omissiva, espressione dell'altrui inganno, i giudici del merito hanno evidenziato come il comportamento dell'imputato assumeva la più grave connotazione di una consapevole connivenza, in quanto la solidarietà manifestata a Calvi e sino a dopo la scomparsa dello stesso, non si esauriva nell'ambito riduttivo di un rapporto intersoggettivo, ma comprendeva l'attività amministrativa concretamente espletata dal banchiere, tant'è vero che era stato proprio l'imputato, come già si è notato, a protestare con la Banca d'Italia quando questa nel febbraio 1982, aveva sollecitato il consiglio di amministrazione ed il collegio sindacale all'effettivo esercizio delle loro funzioni.

E se vero è che, come affermato dal ricorrente, la patologia dei finanziamenti consisteva nella destinazione a finalità diverse da quelle dichiarate, è altrettanto indubbio che l'occultamento delle reali destinazioni, almeno in relazione alle operazioni per impadronirsi del controllo della società Rizzoli non potevano sfuggire a chi, come Prisco, della gestione di questa società era partecipe e tale era diventato per volontà di Calvi, e per giunta con poteri di veto che accrescevano ma non certo attenuavano i poteri decisori.

Se poi in tale quadro si inseriscono, come è stato doverosamente fatto dai giudici di merito, tutte le altre circostanze che proprio dal 1980 al 1982 si erano manifestate e che erano univocamente sintomatiche dei metodi fraudolenti con i quali veniva gestita la banca, non si vede in quale vizio di motivazione sia incorsa l'impugnata sentenza allorquando da quelle circostanze ha tratto la convinzione che Prisco, più di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione, e per le ragioni su esposte, era a conoscenza di quella realtà, della quale aveva avuto diretta esperienza qualche anno prima, quando cioè aveva accettato di essere il patrocinatore degli interessi di Calvi e dei suoi collaboratori nella Rizzoli, interessi che nulla avevano a che vedere con le finalità speculative di una banca.

E tale maturata consapevolezza, vivificata dal susseguirsi di una serie di vicende che nella loro efficacia sintomatica si armonizzavano nella stessa direzione, non poteva non essere utile anche al fini della ricerca e della valutazione dell'elemento psicologico richiesto per la configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale.

La Corte di Appello di Milano non ha ignorato che al vaglio del consiglio di amministrazione erano sottoposti soltanto i finanziamenti che superavano l'importo di diciotto miliardi, né che i bilanci e le relazioni erano redatte da organi tecnici che operavano alle dirette dipendenze di Calvi, ma ha motivatamente escluso che entrambe tali circostanze potessero far dubitare della colpevolezza dell'imputato: molti depositi fiduciari superavano quell'importo ed erano stati approvati dal consiglio del quale Prisco faceva parte, come pure era avvenuto per alcuni finanziamenti a favore di imprese che operavano in Italia e per quelli erogati alle consociate estere del Banco Ambrosiano, nonostante i reiterati ed allarmanti rilievi della Banca d'Italia.

Il coinvolgimento di Calvi in quel procedimento penale che evocava non personali iniziative, ma pregiudicate scelte operative che coinvolgevano direttamente il Banco Ambrosiano, il Credito Varesino, la Banca del Gottardo e le società Toro Assicurazioni, e quindi l'intero gruppo, accusato, e non senza fondamento, di avere illecitamente esportato oltre 23 miliardi di lire, era già sintomatico di una disinvolta gestione, non certamente sensibile al rispetto della trasparenza, e soprattutto degli stessi interessi della banca; ma se poi in tale contesto si inseriva la relazione del dr. Padalino che illustrava i dubbi e le gravi perplessità anche sulla destinazione del denaro erogato alle consociate estere del Banco Ambrosiano, vi erano ragioni più che sufficienti per dubitare della correttezza formale e sostanziale di quelle operazioni e, quindi, per sollecitare una doverosa attenzione di chi era preposto alla loro approvazione e verifica.

Ne consegue che sotto tale profilo i rilievi dedotti dal ricorrente non sono condivisibili, perché le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Appello di Milano non sono fondate su mere congetture, né su arbitrarie ipotesi, ma sono soltanto il risultato logico dell'analisi corretta e completa delle risultanze acquisite.

E d'altronde, è pur vero che, come ha sostenuto la difesa del ricorrente, le bozze dei bilanci venivano predisposte materialmente dagli uffici tecnici della banca, ma è altrettanto incontestabile che all'onere della loro verifica doveva provvedere il consiglio di amministrazione e quest'onere, attesa l'esistenza di quei gravi indici di allarme, imponeva un adeguato controllo che non poteva certamente esaurirsi in una cieca accettazione dei dati contabili rappresentati da chi aveva interesse ad occultare la realtà.

La sentenza impugnata, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha certamente ignorato né il contenuto della relazione del dr. Desario che segnalava una riduzione dei finanziamenti del Banco Ambrosiano alle consociate estere, né tantomeno la riconducibilità dell'iniziativa di costituire un comitato esecutivo che avrebbe dovuto limitare i poteri di Calvi. Ma la sentenza impugnata ha dovuto prendere atto - e la circostanza è documentalmente provata - che il contenuto del rapporto Desario fu reso noto dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza e, comunque, non esponeva che una parte della verità, perché se diminuiti erano i finanziamenti diretti, aumentati risultavano quelli indiretti, e quanto al comitato esecutivo, esso non aveva di fatto esercitato le funzioni per le quali era stato concepito, perché in realtà si era trattato di un mero espediente tattico escogitato da chi, come Prisco, voleva conservare Calvi alla guida della banca e, nel contempo, offrire all'organo di vigilanza la parvenza di un valido ed efficace tentativo per ricondurre la gestione dell'azienda nel binario della legalità dopo le note vicende che avevano determinato l'arresto di Calvi.

Ed una volta escluso che il fallimento sia un elemento costitutivo della fattispecie, non può che convenirsi con quanto affermato nell'impugnata sentenza, e cioè che non era in alcun modo necessario dimostrare, da parte dell'accusa, un nesso tra la condotta ed i suoi effetti, una volta accertato che le attività del Banco Ambrosiano, con la compiacente e costante collaborazione dell'imputato, venivano destinate a finalità diverse da quelle consentite e che tale consapevolezza si ripercuoteva, necessariamente, sulla falsa ed ingannevole rappresentazione della realtà, rappresentazione difesa sino all'ultimo, nonostante le diverse e reiterate insistenze dell'organo di vigilanza, preposto alla tutela di pubblici interessi, e di chi, come De Benedetti, aveva invano chiesto di essere posto al corrente della reale situazione economico-finanziaria del Banco Ambrosiano sei mesi prima che il dissesto fosse accertato dall'autorità giudiziaria competente.

Quanto, infine, alla sottoscrizione del falso rendiconto, le giustificazioni offerte dall'imputato sono state motivatamente disattese, una volta accertatosi che erano stati utilizzati i risultati contabili contenuti nel bilancio del 1981 e si era perpetrata una valutazione artificiosa della partecipazione nella holding lussemburghese e dei crediti vantati verso le consociate estere ed i beneficiari dei vari finanziamenti, erogati senza opportune garanzie e destinati, non di rado, a fini diversi da quelli dichiarati.

Il rendiconto presentato ai commissari liquidatori il 20 luglio 1982 altro non doveva contenere che la rappresentazione sintetica della situazione contabile maturatasi dopo l'approvazione dell'ultimo bilancio, sicché almeno in quella sede si aveva l'opportunità di abbattere il veto protettivo del silenzio sulla reale condizione della banca e se ciò non avvenne non fu certo per l'impossibilità materiale di farlo, bensì per l'avvertita esigenza di perpetuare una rappresentazione che doveva occultare come il patrimonio del Banco Ambrosiano fosse stato già tutto inghiottito dalle perdite due anni prima, cioè nel 1980, e che le successive operazioni, giustificate dai più disparati interessi, incompatibili certamente con un reale programma di risanamento, avevano avuto un solo risultato, e cioè quello di consolidare l'indebitamento, aumentandone progressivamente la consistenza.

È stato questo il percorso logico seguito dall'impugnata sentenza, sicché non solo non emergono aspetti di manifestata illogicità, ma neppure risultano sottratte alla doverosa analisi dei giudici dell'appello circostanze rilevanti, potenzialmente idonee a giustificare una diversa decisione.

È del pari destituito di qualsiasi fondamento il rilievo dedotto dal ricorrente nei motivi aggiunti, in relazione alla valutazione dell'elemento psicologico del reato, posto che nella sentenza impugnata la condotta ascrivibile all'imputato non è stata ricostruita nell'ambito riduttivo di un comportamento negligente, non attento ai segnali d'allarme.

Esso è stato ritenuto sintomatico di una volontaria adesione alle scelte operative di Calvi, nella piena consapevolezza che il risultato di quelle scelte era la sottrazione di attività dal patrimonio della banca, sottrazione della quale l'imputato era stato un indiretto beneficiario e, nel contempo, attento ed interessato testimone, quando nel consiglio di amministrazione della Rizzoli Editore non potè non percepire l'interesse di Calvi e dei suoi complici ad ottenere il controllo di quella società, attraverso finanziamenti che nulla avevano a che vedere con le attività speculative del Banco Ambrosiano.

Né a diversa conclusione poteva pervenirsi sulla base della conclusione giudiziaria del procedimento che aveva visto coinvolto lo stesso imputato nella bancarotta conseguente alla dichiarazione d'insolvenza della società Rizzoli, posto che in quel procedimento non era in discussione la genesi dei finanziamenti del Banco Ambrosiano, né i motivi che li avevano giustificati, bensì soltanto la loro effettiva destinazione.

E quanto alla quotazione in borsa delle azioni del Banco Ambrosiano, quell'operazione non rappresentava certo la prova del definitivo superamento di una situazione di crisi, quanto, piuttosto, lo strumento al quale la Banca d'Italia aveva fatto ricorso per ottenere alcuni adempimenti formali, quale la presentazione di un bilancio consolidato, che, secondo le intenzioni dei proponenti, doveva servire per ottenere una meno incompleta rappresentazione delle esposizioni debitorie all'estero, aspettativa delusa dal massiccio ricorso ai finanziamenti interbancari.

Pertanto, anche sotto tale aspetto la sentenza impugnata si sottrae ai rilievi del ricorrente.

Quanto infine all'ultimo motivo di censura, concernente il giudizio di comparazione e la determinazione della pena, il ricorso è ai limiti dell'ammissibilità, posto che attraverso i rilievi dedotti si propone alla Corte una rivalutazione complessiva del fatto e della personalità del colpevole al fine di pervenire ad una più favorevole decisione: ma tale rivalutazione è preclusa in questa sede.

La sentenza impugnata ha riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche, valutando positivamente il suo comportamento processuale, ma ha giudicato tali attenuanti equivalenti alle contestate aggravanti in considerazione non solo dell'oggettiva gravità dei fatti accertati, ma soprattutto dell'attivo ed autorevole contributo offerto da Prisco alla loro realizzazione e tale valutazione è in questa sede incensurabile.


Né risulta che al fini della concreta determinazione della pena la sentenza impugnata non abbia utilizzato legittimamente i criteri previsti dall'art. 133 c.p., posto che ha tenuto conto, espressamente, sia della gravità dei reati accertati, desumendola dalle modalità con le quali si era esplicata la condotta, oltre che dalla gravità complessiva del danno arrecato, che della capacità a delinquere dell'imputato, negativamente caratterizzata dalla stessa reiterazione della condotta delittuosa: ne consegue che il potere discrezionale del giudice di merito è stato legittimamente esercitato e le conclusioni alle quali è pervenuto sono correttamente motivate. 


















La partita di calci dedicata all' inter, con il trio-M-come- MERDA-moratti-mancini-materazzi - La storia degli arbitri e dei calci di Rigore.

PRIMA PARLIAMO DEI RIGORI E DOPO DELLA PARTITA A CALCI
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DAL GIORNALE DOVE TUTTI NASCONO INTERISTI
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Flavio Biondi Pres. RcsSport - In RCS nasciamo interisti
Altrimenti detto: Noi di Corriere della Sera & Gazzettatta dello Sport nasciamo interisti

       Scudetto non di rigore

naio 200323 gen

Negli ultimi dieci anni soltanto una volta chi ne ha avuti di piu ha vinto il campionato 
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«Alla fine tutti i discorsi vanno a finire lì: agli arbitri, ai rigori»: così ha concluso il presidente della Lega e vice presidente del Milan Adriano Galliani il suo intervento in risposta al vice presidente dell' Inter Giacinto Facchetti che aveva sottolineato «l' anomalia della squadra del presidente di Lega che ha avuto nove rigori a favore e nessuno contro». 
JUVE - 
Ma i rigori sono davvero determinanti per vincere lo scudetto? La statistica dice no. 
Negli ultimi dieci campionati soltanto una volta la squadra che ha avuto più rigori ha vinto il titolo: Juventus, stagione 1996-97, 9 rigori calciati e 7 realizzati (anche l' Atalanta ne ebbe 9), un rigore contro. 

E se estendiamo la statistica agli ultimi vent' anni, vediamo che soltanto quattro volte chi ha vinto la classifica dei rigori a favore ha vinto lo scudetto: 
Inter nel 1988-89 (8 concessi, 6 realizzati, ma 8 ne ebbero anche Atalanta, Juve, Milan e Samp); 
Sampdoria nel 1990-91 
(9 concessi, 8 realizzati e 9 ne ebbe anche l' Inter); 
Milan nel 1991-92 (12 a favore, 9 segnati) 
e Juve nel 1996-97. 

Nella storia dei settant' anni di campionati d' Italia a girone unico, dal 1929 al 2002, soltanto 18 volte chi ha vinto la classifica rigori ha vinto anche quella del campionato. 
MILAN E INTER  

Due volte ha vinto lo scudetto la squadra che ha avuto meno rigori: il Milan nel 1993-94 e la Juventus nel 1971-72 con un rigore ciascuno, ma non realizzato (per i bianconeri non segnò Causio; per i rossoneri non realizzò Savicevic, il rigore venne fatto ribattere e Costacurta tirò alto). 

C' è un' altra squadra che ha vinto lo scudetto senza segnare neppure qualcuno dei rigori concessi: Bologna nel 1936-37, 2 rigori concessi e falliti. 

Il Milan vinse il titolo nel 1968-69 senza avere un rigore né a favore né contro. Ma ci sono anche quattro casi in cui chi ha vinto la classifica rigori poi è retrocesso in B: Padova (1929-30), Pisa (1968-69), Cremonese (1984-85) e Bari (2000-2001). 

C' è un caso che riguarda anche la grande Inter di Herrera che poi è anche quella di Giacinto Facchetti: 
vinse i due scudetti consecutivi nel 1964-65 e 1965-66 senza vedersi fischiare nemmeno un rigore contro e nel 1965-66 fu la squadra ad averne di più a favore (8, come il Torino). 

L' Inter tra il 29 marzo del 1964 (Bologna-Inter 1-2, rigore fallito da Haller) e il 12 novembre 1966 (Inter-Roma 0-0, sbagliò dal dischetto Peirò) si godette 82 giornate di campionato (985 giorni) senza subire un rigore. 

TRE GRANDI 
La Juventus detiene il record nella storia del campionato a girone unico di rigori assegnati a favore (416: uno ogni 5,5 partite) e contro (222: uno ogni 10,3 partite). 
L' Inter è seconda: 396 rigori a favore (uno ogni 5,8 partite) e 250 contro (uno ogni 9,1 partite). 
Terzo è il Milan (ma rispetto agli altri due club, mai retrocessi, ha giocato due stagioni in B) con 353 rigori a favore (uno ogni 6,3 partite) e 250 rigori contro (uno ogni 8,9 gare). 

Chiaramente chi va più in area di rigore, chi attacca di più ha per forza più rigori a favore e nello stesso tempo meno a sfavore, perché sta meno tempo nella propria area a subire gli affondo avversari. 
In questo senso i dati sono davvero inequivocabili e mettono sullo stesso piano le tre grandi: tutte con più rigori a favore e meno contro. Tanto per sottolineare, insomma, che non c' è scandalo in questi primati perché riassumono chiaramente il comportamento offensivo  in campo.
 
PIU' RIGORI 
E gli arbitri come vivono il rigore? Si rendono conto dell' importanza (dato alla mano nella storia degli scudetti: della non importanza) di fischiarli? Gli arbitri dal 1990 a oggi hanno visto un progressivo cambiamento dell' interpretazione della regola. Prima, il rigore si dava con molta più parsimonia, proprio in casi di fallo grave in area. Dal Mondiale italiano la Fifa ha via via sempre più privilegiato chi attacca e quindi ha imposto una differente interpretazione della regola: si devono dare più rigori. Fino a giungere a cambiare la legge: si punisce non soltanto il fallo volontario, ma anche quello involontario, dovuto a imprudenza o ad eccessiva vigoria. Sta di fatto che al termine del girone d' andata dell' attuale serie A gli arbitri hanno chiuso il bilancio con 63 rigori assegnati mentre l' anno scorso ne avevano dati 54, con un aumento del 16,67%.

CARTELLINI ABBATTUTI 
Sono invece drasticamente diminuite le espulsioni: 40 contro le 64 dell' anno scorso, con un calo del 37,50%. E le ammonizioni sono scese da 719 a 641, il 10,85% in meno. Il fatto che ci siano stati più rigori è evidentemente conseguenza dell' invito perentorio fatto dai designatori Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto all' inizio della stagione. 
Ricorda Pairetto: «Abbiamo chiesto agli arbitri di essere più attenti e meno permissivi nelle aree di rigore. La scorsa stagione numerosi falli in area non erano stati adeguatamente puniti. Quest' anno volevamo e dovevamo riportare ad uno scrupoloso rispetto dell' applicazione fiscale delle regole. Evidentemente gli arbitri sono stati bravi a seguirci. Ora chiaramente si può fare ironia sul fatto che il rigore di Perugia-Inter non c' era, ma è il solo che sia stato concesso erroneamente. 

Gli altri c' erano tutti. E chiaramente ne abbiamo registrato altri che c' erano e non sono stati concessi, ma siamo sulla tolleranza di 6-7 fischi mancati». 
MENO FALLI  
Invece sorprende l' abbattimento di cartellini rossi e gialli. Vuol dire che all' inflessibilità dal punto di vista tecnico è corrisposta una tolleranza dal lato disciplinare oppure significa che i giocatori sono diventati meno fallosi? 

Pairetto non ha dubbi: «Anche qui, mancano una decina di espulsioni e una ventina di ammonizioni, ma anche se le aggiungessimo il risultato sarebbe di forte calo rispetto all' anno scorso. Vuol dire quindi che il gioco è stato più corretto. Vuol dire anche che il richiamo all' applicazione rigorosa delle regole è servito da deterrente. Un buon risultato». Antonello Capone

LE REAZIONI 
«Possono falsare il campionato» CORIONI «I rigori non possono essere uno o cinquanta per tutti. Si danno se ci sono, altrimenti no» AGOSTINELLI I 
rigori sono molto importanti nell' economia di una partita e, di conseguenza, anche per l' assegnazione dello scudetto. Se dovessi fare una percentuale di incidenza direi che contano al 30 per cento nel contesto di una stagione» 
PREZIOSI 
«Un rigore dato o non dato può arrivare a determinare un campionato. E nel contesto di questa stagione stiamo assistendo a sviste ed errori arbitrali tali da pensare che alla fine le direzioni di gara possano davvero arrivare a falsare l' esito finale. Tanto più che i campionati non si vincono con distacchi di dieci punti, ma spesso di due o tre punti». 
LE CIFRE 
Squadre campioni d' Italia e penalty: così dal 1982 in poi 
ANNO CAMPIONE RIGORI A FAVORE RIGORI CONTRO CHI EBBE PIU' RIGORI CALCIATI SEGNATI CALCIATI SEGNATI 81-82 JUVENTUS 6 5 0 0 IN TER 12 82-83 
ROMA 6 5 2 1 
UDINESE 9 83-84 
JUVENTUS 5 5 8 7 
LAZIO 10 84-85 
VERONA 6 4 2 0 
CREMONESE E SAMP 7 85-86 
JUVENTUS 3 2 2 2 
ROMA 8 86-87 
NAPOLI 5 4 2 2 
SAMPDORIA 7 87-88 
MILAN 4 2 1 1 
SAMPDORIA 8 88-89 
INTER 8 6 3 2 
MILAN, SAMP, JUVE, INTER 8 89-90 
NAPOLI 10 9 2 2 
FIORENTINA 11 90-91 
SAMPDORIA 9 8 5 4 
INTER E SAMPDORIA 9 91-92 
MILAN 12 9 1 0 
MILAN 12 92-93 
MILAN 4 4 3 0 
FOGGIA 9 93-94 
MILAN 1 0 4 4 
SAMPDORIA 13 94-95 
JUVENTUS 7 6 8 5 
FIORENTINA 12 95-96 
MILAN 8 5 4 3 
LAZIO 14 96-97 
JUVENTUS 9 7 1 1 
ATALANTA E JUVENTUS 9 97-98 
JUVENTUS 8 4 4 4 
BOLOGNA 12 98-99 
MILAN 7 6 4 2 
INTER E PIACENZA 14 99-00 
LAZIO 10 8 4 4 
MILAN 14 00-01 
ROMA 7 5 2 2 
BARI E BRESCIA 11 01-02 
JUVENTUS 7 5 2 1 
UDINESE 11 
Tabella a cura di L. Birelli 

I precedenti che fanno epoca Quando Brady fu decisivo 
Al Milan, campione d' Italia nel ' 94, un solo rigore in tutto il campionato: fu tirato due volte, senza esito Uno stupore molto italiano colse l' Italia quel lontano 16 maggio 1982 quando Liam Brady segnò a Catanzaro il rigore che consegnò lo scudetto alla Juve. L' irlandese era ormai sicuro di andar via, per lasciare posto a Platini, ma si incaricò della trasformazione senza indugi. Stupito del nostro stupore, ancora oggi Brady -tutte le volte che viene interpellato sulla questione- borbotta: «Cos' altro avrei dovuto fare, ero ancora un giocatore della Juve, no?». 

Oltremanica sono fatti così: noi urliamo meravigliati per cose vissute da loro semplicemente come un dovere. Quel rigore è passato alla storia degli ultimi anni come l' unico, vero, penalty ad aver deciso uno scudetto: perché arrivo al 75' , era l' ultima giornata, e trascinò nella sua scia un' avversaria schiumante rabbia, quella Fiorentina battuta in volata di un solo punto. La grande rivalità tra le due società - alimentata poi dalla furiosa campagna antibianconera accesa da Zeffirelli e dal passaggio di Baggio alla Juve - in fondo nacque proprio quel giorno. 

Nell' immaginario collettivo del popolo pallonaro, nessun rigore fu così risolutivo e spietato come quello di Brady. Ma è rimasto il solo. Le statistiche - a esempio - dicono che anche l' ultimo scudetto della Lazio fu propiziato da un rigore, anzi due: quelli segnati da Simone Inzaghi e Veron all' ultima giornata contro la Reggina (3-0). Ma qualcuno se li ricorda? 

Di ben altro si lamentava quel giorno la Juventus, annegata nel diluvio di Perugia. Ce l' aveva con Collina, mica con Borriello che aveva diretto la Lazio. Anche l' ultimo scudetto di Capello al Milan - se vogliamo - fu timbrato da un rigore, quello con cui Baggio, alla terzultima giornata, portò sul 2-1 i rossoneri nella partita poi vinta 3-1 contro la Fiorentina. Successo che consegnò aritmeticamente il titolo del ' 96 a una squadra che lo aveva già stravinto da mesi: banale, dunque, attribuirlo a un tiro dal dischetto. 

Se dal penalty individuale il discorso si sposta a quelli assegnati in tutto il campionato, quali considerare veramente utili ai fini di uno scudetto? 

Le cifre dimostrano che solo quattro volte - negli ultimi 20 tornei - la squadra campione d' Italia è stata anche quella che ha avuto più rigori. Ma hanno contato poi così tanto? 

La Juventus del 1996-97 - l' ultima a vincere col maggior numero di rigori a favore - ne ebbe solo tre decisivi: quando rimontò contro il Verona da 0-2 a 2-2, quando sbloccò il risultato contro il Perugia, quando raggiunse il Parma sull' 1-1. 

Qualcuno si sente di dire che abbiano avuto un peso così importante, in un campionato dominato in lungo e in largo? 

Stesso discorso per il Milan del 1991-92, che conquistò lo scudetto senza perdere neppure una partita, e della Sampdoria di Vialli e Mancini che nel 1990-91 si vide fischiare a favore ben 9 rigori, ma solo 2 utili a sbloccare il risultato. 

Sganciato dall' arido conto delle cifre, il romanzo delle scudetto vive di pagine ben più importanti. La squadra forte vince sempre e comunque: basti ricordare quanto capitò al Milan del 1993-94, quello del terzo scudetto consecutivo di Capello. Gli fu assegnato un solo penalty in tutto il campionato, nella partita contro la Cremonese: lo tirò Savicevic e fu parato da Turci ma l' arbitro Quartuccio fece ripetere l' esecuzione e Costacurta calciò alto.

 Naturalmente il campo di sospetti si nutre di veleni che mai nessuna cifra potrà documentare. Come la mettiamo con i rigori negati? Qui possiamo dire tutto e il contrario di tutto e ciascuno potrà portare acqua al suo mulino: ogni allenatore, del resto, è convinto di avere diritto ad almeno 4-5 punti in più in classifica, ricordando gli episodi contro, mai quelli favorevoli. 

Come dimenticare, però, il più famoso dei rigori non dati? Mancavano 3 giornate alla fine quando l' Inter - nella stagione 1997-98 - andò a giocarsi il titolo sul campo della Juventus: era sotto di un gol e Ceccarini le negò un evidente rigore per fallo di Iuliano su Ronaldo. Un episodio che ha fatto epoca, seminando una lunga coda di recriminazioni. Ma attenzione: la Juve, in caso di pareggio, avrebbe comunque conservato un punto di vantaggio. Siamo così sicuri che - a tre turni dalla fine - non le sarebbe bastato per vincere il titolo? Insomma, godiamoci il campionato per tutto il bello che ci può dare. Rigori o non rigori. Vincenzo Cito
                                                                       Capone Antonello, Cito Vincenzo 


IL GIORNALE DOVE TUTTI NASCONO INTERISTI, RICORDA LO SCONTRO TRA RONALDO DA LIMA E IULIANO DELLA PARTITA DEL GIORONE DI RITORNO, FACENDOLO PASSARE PER UN EVIDENTE FALLO DA RIGORE,  MENTRE L'AFFOSSAMENTE DI WEST SU INZAGHI NELLA PARTITA DEL GIROMNE D'ANDATA, VOLUTAMENTE IGNORATO, COME IGNORATO FU IL VALIDISSIMO GOL DI INZAGHI ANNULLATO DAL CORROTTO ARBITRO PRE UN PRESUNTO CONTROLLO DI MANO, SU UN PALLONE CALCIATOGLIELO ADDOSSO AD UN METRO DI DISTANZA! 
https://www.youtube.com/watch?v=K3JGTAVndwM
                                                                        FARABUTTI
                                                                            *******
                                                       ED ECCO LA PARTITA A CALCI
                                             Per i fetidi giornalisti: caproni con caravatta!

Sono stato per quattro giorni in Calabria, invitato, alla festa delle nozze d'oro di un mio ex datore di lavoro. L'incontro con i vecchi amici a portato alla mente tanti ricordi. Con in testa la mia squadra che in quei giorni doveva giocare una partita amichevole poi cancellata, e mi venne in mente una strana partita di calcio (?)di tanti anni fa. Eravamo nell'entroterra Crotonese per una battuta di caccia e ci imbattemmo in uno strano pecoraro con una piccola mandria, aveva non piu` di una trentina di ovini, capre e pecore, ma lui le chiamava tutte per nome, inclusi un montone di nome cavaliere, che stava sempre con la testa bassa a rifocillarsi di quella poca erba calpestata rimasta in quella terra arida! E un caprone con una consistente barbetta sotto il mento e corna a spirale, puntute e minacciose. Il pecoraro lo chiamava avvocato! Mi incuriosiva sia quel nome avvocato e sia che, con un bastone lungo circa un metro e mezzo con piccola forca all'estremita`, lo tenesse sempre a debita distanza inforcandolo continuamente, e` gli gridava... avvocato movate curnutu... i malanova chi te piglia!!! E ogni volta che lo inforcava, al pecoraro uccicavano gli occhi e il pomo d'Adamo gli andava su e giu`, come a quelli che bevono a garganella. La parte strana? Il nostr'omo prese un vecchio e ammaccato "orinale", certamente usato altre volte e lo butto` tra gli ovini tenuti in gruppo da due cani latranti. Secondo il pastore, l'orinale doveva fungere da pallone: strano persnaggio il pecoraro, pretendeva che capre e pecore giocassero a pallone, con lui in mezzo bestia tra le bestie che zompava di qua` e di la` come un saltimbanco. Povere bestie (pecoraro escluso). La bestia col bastone spesso e volentieri inforcava il caprone, e si vedeva che provava un sadico piacere, vidi nei suoi occhi quella luce malevola che in certe circostanze vedevo negli occhi del mio datore di lavoro... non potei fare a meno di domandargli perche` lo trattasse cosi`: mi disse: che era l'unico animale del gregge con le corna; che l'avvocato don ciccio era il  capondrangheta e padrone del gregge, e` che mentre lui pascolava gli le bestie, dob ciccio gli faceva le corna (gi fotteva la moglie; Che con le bestie giocava a pallone per sfogarsi con il caprone! Gli chiesi se lo tenesse sempre a distanza per paura, e mi disse: pecchi` u tegnu luntanu de mie? Malanova sua, chistu e nu zimbaru (caprone) puzzulente, puzza quasi quantu don cicciu, prova ti vui a ci stari vicinu. Puzza "quasi" quanto don ciccio...incuriosito mi avvicinai al caprone... accidenti se puzzava, e quanto doveva puzzare don ciccio? Non saranno altrettanto puzzolenti (ma sempre fetidi sono!) ma ci sono tanti caproni che giocano a pallone con pseudo grandi squadre a Milano in primis, creati campioni da facili pennaroli servili! Fetidi caproni con la caravatta.

inviato, da Dalvadore (turiddu baciamo le mani don beccantini)