In difesa della mia compagna di viaggio
contro il suo peggior nemico: Roberto Beccantini!
Cassazione Penale
Sent. n. 8327 del 14-07-1998
Isnsolvenza (fallimento Banco Ambrosiano, Svolgimento del Processo
Prisco Giuseppe: Condanna e motivazione
Prisco Giuseppe
In relazione alla posizione
dell'imputato Prisco Giuseppe sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Milano
hanno dato particolare rilievo al fatto che l'imputato oltre ad avere assunto
l'incarico di componente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano,
analoghe funzioni aveva svolto dal luglio 1977 presso la società "Rizzoli
Editore", perché ritenevano che tale duplice incarico aveva finito per porlo in
una situazione privilegiata al fine di percepire le reali e progressive
dimensioni del dissesto e le cause che lo avevano determinato.
Inoltre, la solidarietà
manifestata dall'imputato nel confronti di Roberto Calvi ed in tutte le
iniziative da questi assunte, solidarietà protrattasi anche dopo l'improvvisa
scomparsa di quest'ultimo, è stata interpretata nelle conformi sentenze dei
giudici di mento come sintomatica della complicità, indissociabile dal rapporto
di intensa collaborazione che si era instaurato tra i due soggetti.
Secondo la ricostruzione dei
giudici di mento, Prisco era entrato a far parte del consiglio di
amministrazione della società Rizzoli come un uomo di assoluta fiducia di Calvi,
e si era reso parte diligente per la nomina di Bruno Tassan Din a direttore
generale di quella società, nel momento in cui Calvi, con la complicità di Gelli
ed Ortolani, ne acquisiva il pieno controllo.
Nessuna iniziativa aveva
assunto neppure quando la stampa aveva diffuso gli elenchi degli affiliati alla
loggia massonica denominata "P2", e cioè quando aveva saputo che tutti i
protagonisti di quell'operazione, effettuata attraverso cospicui finanziamenti
da parte del Banco Ambrosiano, a quella loggia appartenevano.
Era altresì emerso che
l'imputato non aveva esitato a solidarizzare con Calvi sia durante la detenzione
che dopo la scarcerazione: durante la detenzione di Calvi, pur preoccupato di
fronte alla necessità di sostituire questi alla guida della banca, non aveva
assecondato il proposito di chi quella sostituzione voleva attuare, tant'è che,
appena Calvi fu rimesso in libertà, fu proprio Prisco ad assumere l'iniziativa
per dissuadere Mozzana da ogni diversa decisione, prospettando a chi non
condivideva la sua opinione, che sostituire Calvi in quel momento poteva servire
solo a voler significare che fondate erano le accuse che in quel procedimento la
Procura di Milano aveva formulato.
Nella sentenza impugnata si
evidenziava altresì che Prisco, in quel procedimento penale nel quale era stato
direttamente coinvolto Calvi, aveva assunto la difesa del coimputato Valeri
Manera, ed in tale veste, non aveva certo potuto ignorare la genesi del
processo, le prove acquisite dall'accusa, le giustificazioni offerte dagli
imputati, e, soprattutto, era stato informato del contenuto complessivo del
rapporto del dr. Padalino, e, quindi, anche della parte che sino a quel momento
era rimasta riservata, e nella quale si sottolineavano le preoccupazioni
dell'ufficio ispettivo della Banca d'Italia sulle esposizioni debitorie del
Banco Ambrosiano e si invocava una permanente e diffusa attività di efficace
vigilanza, la cui necessità era resa evidente dalla scarsa collaborazione che
era stata offerta, nella ricostruzione delle più rilevanti operazioni
finanziarie.
L'imputato, inoltre, non aveva
esitato nel solidarizzare con Calvi anche in occasione della vicenda conclusasi
con le clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti, allorquando, con la
mediazione dell'avvocato Chiaraviglio, si tentò ma senza alcun apprezzabile
successo, di convincere De Benedetti a motivare le sue dimissioni in modo
diverso, sì da occultare, ancora una volta, con quali criteri la banca veniva
gestita; ed era stato ancora Prisco il promotore del comunicato diffuso al
termine della riunione del consiglio di amministrazione del 17 febbraio 1982,
quando in risposta al dubbi espressi dalla Banca d'Italia, dopo le dimissioni di
De Benedetti, sulla capacità degli organi collegiali preposti
all'amministrazione del Banco Ambrosiano di assumere, responsabilmente, autonome
determinazioni, si manifestò stupore ed indignazione, quasi che i presupposti di
fatto che quell'interrogativo giustificavano fossero stati artificiosamente
creati per rappresentare una diversa realtà; e pur dopo la scomparsa di Calvi,
quando già si profilava, in termini concreti la possibilità dell'amministrazione
straordinaria, era stato Prisco nel corso di un incontro con il dr. Noto della
sede milanese della Banca d'Italia a sconsigliare quella possibilità e, nel
contempo, a manifestare il suo dissenso anche all'opzione alternativa, e cioè a
quella di sostituire a Calvi Bagnasco.
Pertanto, sulla base di tali
elementi, la Corte di Appello di Milano confermava la condanna dell'imputato per
i reati a lui ascritti ai capi 1-A - B - C - D e, in considerazione
dell'avvenuta transazione con le parti civili, concedeva le attenuanti generiche
che valutava equivalenti alle contestate aggravanti e riduceva la pena ad anni
cinque e mesi quattro di reclusione.
Quanto alla distrazione
conseguente all'acquisto di azioni attraverso la società "Suprafin" (capo 1-E),
si escludeva la partecipazione dell'imputato, essendo i finanziamenti avvenuti
in epoca precedente al suo ingresso nel consiglio di amministrazione del Banco
Ambrosiano.
La sintetica esposizione dei
motivi sui quali è fondata la conferma della condanna del primo giudice si è
resa necessaria al fini dell'analisi dei numerosi rilievi prospettati dalla
difesa del ricorrente, ed affidati ai motivi principali, a quelli aggiunti e ad
un'analitica e diffusa memoria.
L'imputato ha, innanzi tutto,
denunciato l'errata applicazione dell'art. 216, comma 1, n. 1, della legge
fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), sostenendo che la sentenza impugnata
era pervenuta a quelle conclusioni unicamente perché aveva ritenuto
configurabile il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione allorquando
l'atto dispositivo non rientra nell'oggetto sociale e si rivela pregiudizievole
per gli interessi economici dell'impresa e non aveva dato, invece, alcuna
rilevanza al fatto che le operazioni finanziarie approvate dal consiglio di
amministrazione del Banco Ambrosiano erano state deliberate quando lo stato
d'insolvenza non ancora esisteva o, comunque, non si era manifestato.
Ed attraverso tale lacunosa
indagine, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata aveva finito per
dissociare il dolo della bancarotta da un suo essenziale presupposto, e cioè la
preventiva conoscenza dell'insolvenza dell'azienda.
Osserva la Corte che il
rilievo, riproponendo all'attenzione del Collegio una problematica che ha remote
origini e che in dottrina ha suscitato controverse soluzioni, non è in alcun
modo condivisibile: ai fini della sua stessa prospettazione sono carenti i
presupposti di fatto sul quali quel rilievo è fondato, posto che, come già si è
osservato, la solidarietà manifestata dall'imputato a Calvi ed ai criteri da
questi seguiti nella gestione della banca è stata espressa, con indubbia
continuità, sino al 13 giugno 1982, quando ormai la prospettiva dello
scioglimento degli organi amministrativi era divenuta una concreta realtà e
quando le cause che quell'evento preannunciavano erano evidenti.
Sarebbe, quindi, arbitrario
ridurre il contributo offerto dall'imputato nell'amministrazione del Banco
Ambrosiano ad episodi precedenti al 1980, e cioè ad un periodo che precede la
manifestazione dello stato d'insolvenza, quando, invece, è dimostrato, e
d'altronde neppure l'imputato lo ha mai contestato, che la sua permanenza nel
consiglio di amministrazione è cessata soltanto quando il Banco Ambrosiano fu
sottoposto ad amministrazione straordinaria.
Inoltre, il rilievo dedotto dal
ricorrente finisce per attribuire rilevanza penale all'atto dispositivo compiuto
dall'imprenditore commerciale solo allorquando l'insolvenza si è oggettivamente
manifestata nelle sue reali dimensioni ed è stata percepita.
Ma la giurisprudenza di questa
Corte, formatasi sulla base di un'attenta interpretazione della norma
incriminatrice, si è da tempo orientata, ed in maniera sempre più costante,
nell'affermare che tutte le ipotesi alternative previste nell'art. 216, comma 1,
n. 1, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, si realizzano mediante condotte che
determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i
creditori: per nessuna di quelle ipotesi la legge richiede un nesso causale tra
la condotta dell'autore ed il dissesto dell'impresa, sicché né la previsione
dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto
dispositivo, né la percezione della sua stessa preesistenza nel momento del
compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini
dell'antigiuridicità penale della condotta.
Non va dimenticato che il
fallimento, al quale va equiparata la liquidazione coatta amministrativa, non
costituisce affatto l'evento del reato di bancarotta, sicché arbitrario sarebbe
pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di
un atto dispositivo che incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa
commerciale, ed il fallimento.
E del resto, quando il
legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di siffatto rapporto, lo ha
previsto espressamente, non sottraendosi all'onere di indicare entro quali
limiti temporali la condotta può assumere rilievo penale: basti pensare alla
bancarotta semplice documentale (art. 217 comma 2, della legge fallimentare),
ipotesi in cui è il triennio precedente alla dichiarazione di fallimento il
perimetro entro il quale può trovare legittimo spazio l'indagine conoscitiva del
giudice penale.
D'altronde, come più volte
questa Corte ha ribadito (cfr. Sez. V, 26 giugno 1990 ric.. Berdoni, etc.), se
si accettasse una diversa soluzione, verrebbe compromesso l'ineludibile
principio del rispetto della tassatività della fattispecie penale, giacché nella
stessa avrebbe rilevanza una condizione che, se pur proiettata verso un evento
certo, quale la dichiarazione di fallimento, utilizzerebbe un elemento del tutto
arbitrario, affidato ad una soggettiva valutazione, quale l'individuazione del
periodo "prossimo" alla dichiarazione di fallimento.
Né, per giustificare una
diversa conclusione, può essere utile o determinante obiettare che,
l'imprenditore, al pari di ogni altro soggetto, conserva la libera disponibilità
dei beni almeno sino all'insorgenza dello stato d'insolvenza: la previsione
normativa del reato di bancarotta fraudolenta non disconosce quel diritto, né,
tantomeno, il suo legittimo esercizio, funzionale alla realizzazione delle
scelte imprenditoriali: ciò che l'ordinamento vuol salvaguardare è soltanto che
l'esercizio di quel diritto sia correlato agli interessi economici dell'impresa.
Quando da tali interessi si
prescinde, per perseguire finalità che nulla hanno a che vedere con l'oggetto
sociale, e nel contempo le scelte effettuate determinano o aggravano una
diminuzione delle risorse patrimoniali, ci si pone nell'area di una potenziale
illegittimità penale, perché già si compromettono le legittime aspettative dei
creditori e si espone a rischio la stessa sopravvivenza dell'impresa.
E quando sopraggiunge
l'accertamento giudiziale dell'insolvenza, l'atto dispositivo si identifica in
una distrazione di attività, perché quell'accertamento, lungi dal costituire
l'evento del reato, cristallizza gli effetti patrimoniali negativi che ne sono
conseguiti, quale che sia l'epoca in cui quella scelta è stata compiuta.
E non sussistendo apprezzabili
motivi per dissentire da tale conclusione che rappresenta, come già si è
rilevato, il risultato di una costante elaborazione giurisprudenziale, essa va
in questa sede riaffermata e del tutto superfluo appare rimettere la decisone
del problema prospettato dal ricorrente al vaglio delle Sezioni Unite, così come
da lui richiesto.
Neppure meritevole di
accoglimento è il secondo motivo di ricorso e con il quale la difesa
dell'imputato ha denunciato l'erronea applicazione dell'art. 314 c.p.p., in
relazione al diniego di una consulenza tecnica.
Come già si è avuto modo di
precisare, la Corte di Appello di Milano, sia nella sentenza del 10 giugno 1996.
che nell'ordinanza del 5 giugno 1996 - entrambe impugnate dall'imputato - aveva
ritenuto superfluo un accertamento tecnico sullo stato d'insolvenza del Banco
Ambrosiano e sulla ricognizione delle cause che lo avevano determinato,
osservando che le risultanze acquisite non proponevano, a tal riguardo, elementi
di incertezza: la ricostruzione delle operazioni finanziarie che quel dissesto
avevano provocato o aggravato era stata compiuta da un organo tecnicamente
qualificato, quale il collegio dei commissari liquidatori e la documentazione
acquisita anche dalle consociate estere del Banco Ambrosiano suffragava quelle
conclusive indicazioni.
Pertanto, la superfluità di un
accertamento tecnico è stata congruamente motivata anche alla luce della
rinnovata formulazione dell'originario contenuto dell'art. 314 c.p.p., e, come
tale, si sottrae al sindacato di questa Corte, in quanto l'obbligo di provvedere
ad un accertamento tecnico, nel giudizio, è sempre subordinato alla ravvisata
necessità di un'indagine che richieda particolari cognizioni.
Con il terzo motivo di ricorso
l'imputato ha dedotto l'omessa e la contraddittorietà di motivazione
dell'impugnata sentenza, sostenendo, e con articolate argomentazioni, illustrate
anche nella successiva memoria, che si era omesso di considerare che la condotta
realizzata era il risultato di un inganno, in quanto la patologia dei
finanziamenti era costituita dal fatto che essi avevano una destinazione diversa
rispetto a quella dichiarata e, quindi, nota al consiglio di amministrazione, e
che tutto l'apparato estero del Banco Ambrosiano era stato organizzato in modo
da operare nella maggiore segretezza possibile.
Ha inoltre osservato il
ricorrente che tutte le pratiche venivano istruite dall'organo tecnico ed erano
corredate dal relativi pareri favorevoli e che, comunque, durante la sua
permanenza nel consiglio di amministrazione, non tutti i finanziamenti erano
passati al vaglio di tale organo, ma soltanto quelli per importi superiori ai
diciotto miliardi. Infine, quanto alla condanna per il reato di bancarotta
documentale, l'imputato ha osservato che la sentenza impugnata aveva omesso di
considerare che i bilanci e le relazioni venivano predisposti sempre da organi
tecnici e che, quanto al rendiconto, nella lettera del giorno 8 luglio 1982 si
era segnalata l'impossibilità di una completa ricostruzione, sicché carente era
stata l'indagine sia in relazione alla ricostruzione oggettiva dei fatti, che in
merito alla ricerca e valutazione dell'elemento psicologico del reato.
Osserva la Corte che nessuno
dei rilievi su esposti è condivisibile.
Le circostanze indicate dal
ricorrente non sono state trascurate dai giudici di merito, ma sono state
ritenute ininfluenti ai fini dell'accertamento delle responsabilità penali
dell'imputato in relazione alle varie ipotesi contestate, perché si è
considerato che la condotta manifestata dell'imputato sia nel corso del biennio
in cui aveva rivestito l'incarico di componente del consiglio di amministrazione
del Banco Ambrosiano, e cioè dal 12 aprile 1980 al 17 giugno 1982, che nel
precedente e maggior periodo in cui analogo incarico, per volontà di Calvi,
aveva ricoperto presso la società Rizzoli Editrice, vi era stata sempre
un'incondizionata accettazione delle iniziative assunte da Calvi, benché tutta
una serie di circostanze avrebbero dovuto indurre chi a quell'ufficio era
preposto ad attivarsi per un corretto adempimento dei propri doveri.
Lungi, quindi, dall'ipotizzare
una condotta omissiva, espressione dell'altrui inganno, i giudici del merito
hanno evidenziato come il comportamento dell'imputato assumeva la più grave
connotazione di una consapevole connivenza, in quanto la solidarietà manifestata
a Calvi e sino a dopo la scomparsa dello stesso, non si esauriva nell'ambito
riduttivo di un rapporto intersoggettivo, ma comprendeva l'attività
amministrativa concretamente espletata dal banchiere, tant'è vero che era stato
proprio l'imputato, come già si è notato, a protestare con la Banca d'Italia
quando questa nel febbraio 1982, aveva sollecitato il consiglio di
amministrazione ed il collegio sindacale all'effettivo esercizio delle loro
funzioni.
E se vero è che, come affermato
dal ricorrente, la patologia dei finanziamenti consisteva nella destinazione a
finalità diverse da quelle dichiarate, è altrettanto indubbio che l'occultamento
delle reali destinazioni, almeno in relazione alle operazioni per impadronirsi
del controllo della società Rizzoli non potevano sfuggire a chi, come Prisco,
della gestione di questa società era partecipe e tale era diventato per volontà
di Calvi, e per giunta con poteri di veto che accrescevano ma non certo
attenuavano i poteri decisori.
Se poi in tale quadro si
inseriscono, come è stato doverosamente fatto dai giudici di merito, tutte le
altre circostanze che proprio dal 1980 al 1982 si erano manifestate e che erano
univocamente sintomatiche dei metodi fraudolenti con i quali veniva gestita la
banca, non si vede in quale vizio di motivazione sia incorsa l'impugnata
sentenza allorquando da quelle circostanze ha tratto la convinzione che Prisco,
più di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione, e per le
ragioni su esposte, era a conoscenza di quella realtà, della quale aveva avuto
diretta esperienza qualche anno prima, quando cioè aveva accettato di essere il
patrocinatore degli interessi di Calvi e dei suoi collaboratori nella Rizzoli,
interessi che nulla avevano a che vedere con le finalità speculative di una
banca.
E tale maturata consapevolezza,
vivificata dal susseguirsi di una serie di vicende che nella loro efficacia
sintomatica si armonizzavano nella stessa direzione, non poteva non essere utile
anche al fini della ricerca e della valutazione dell'elemento psicologico
richiesto per la configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale.
La Corte di Appello di Milano
non ha ignorato che al vaglio del consiglio di amministrazione erano sottoposti
soltanto i finanziamenti che superavano l'importo di diciotto miliardi, né che i
bilanci e le relazioni erano redatte da organi tecnici che operavano alle
dirette dipendenze di Calvi, ma ha motivatamente escluso che entrambe tali
circostanze potessero far dubitare della colpevolezza dell'imputato: molti
depositi fiduciari superavano quell'importo ed erano stati approvati dal
consiglio del quale Prisco faceva parte, come pure era avvenuto per alcuni
finanziamenti a favore di imprese che operavano in Italia e per quelli erogati
alle consociate estere del Banco Ambrosiano, nonostante i reiterati ed
allarmanti rilievi della Banca d'Italia.
Il coinvolgimento di Calvi in
quel procedimento penale che evocava non personali iniziative, ma pregiudicate
scelte operative che coinvolgevano direttamente il Banco Ambrosiano, il Credito
Varesino, la Banca del Gottardo e le società Toro Assicurazioni, e quindi
l'intero gruppo, accusato, e non senza fondamento, di avere illecitamente
esportato oltre 23 miliardi di lire, era già sintomatico di una disinvolta
gestione, non certamente sensibile al rispetto della trasparenza, e soprattutto
degli stessi interessi della banca; ma se poi in tale contesto si inseriva la
relazione del dr. Padalino che illustrava i dubbi e le gravi perplessità anche
sulla destinazione del denaro erogato alle consociate estere del Banco
Ambrosiano, vi erano ragioni più che sufficienti per dubitare della correttezza
formale e sostanziale di quelle operazioni e, quindi, per sollecitare una
doverosa attenzione di chi era preposto alla loro approvazione e verifica.
Ne consegue che sotto tale
profilo i rilievi dedotti dal ricorrente non sono condivisibili, perché le
conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Appello di Milano non sono
fondate su mere congetture, né su arbitrarie ipotesi, ma sono soltanto il
risultato logico dell'analisi corretta e completa delle risultanze acquisite.
E d'altronde, è pur vero che,
come ha sostenuto la difesa del ricorrente, le bozze dei bilanci venivano
predisposte materialmente dagli uffici tecnici della banca, ma è altrettanto
incontestabile che all'onere della loro verifica doveva provvedere il consiglio
di amministrazione e quest'onere, attesa l'esistenza di quei gravi indici di
allarme, imponeva un adeguato controllo che non poteva certamente esaurirsi in
una cieca accettazione dei dati contabili rappresentati da chi aveva interesse
ad occultare la realtà.
La sentenza impugnata,
contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha certamente ignorato né
il contenuto della relazione del dr. Desario che segnalava una riduzione dei
finanziamenti del Banco Ambrosiano alle consociate estere, né tantomeno la
riconducibilità dell'iniziativa di costituire un comitato esecutivo che avrebbe
dovuto limitare i poteri di Calvi. Ma la sentenza impugnata ha dovuto prendere
atto - e la circostanza è documentalmente provata - che il contenuto del
rapporto Desario fu reso noto dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza e,
comunque, non esponeva che una parte della verità, perché se diminuiti erano i
finanziamenti diretti, aumentati risultavano quelli indiretti, e quanto al
comitato esecutivo, esso non aveva di fatto esercitato le funzioni per le quali
era stato concepito, perché in realtà si era trattato di un mero espediente
tattico escogitato da chi, come Prisco, voleva conservare Calvi alla guida della
banca e, nel contempo, offrire all'organo di vigilanza la parvenza di un valido
ed efficace tentativo per ricondurre la gestione dell'azienda nel binario della
legalità dopo le note vicende che avevano determinato l'arresto di Calvi.
Ed una volta escluso che il
fallimento sia un elemento costitutivo della fattispecie, non può che convenirsi
con quanto affermato nell'impugnata sentenza, e cioè che non era in alcun modo
necessario dimostrare, da parte dell'accusa, un nesso tra la condotta ed i suoi
effetti, una volta accertato che le attività del Banco Ambrosiano, con la
compiacente e costante collaborazione dell'imputato, venivano destinate a
finalità diverse da quelle consentite e che tale consapevolezza si ripercuoteva,
necessariamente, sulla falsa ed ingannevole rappresentazione della realtà,
rappresentazione difesa sino all'ultimo, nonostante le diverse e reiterate
insistenze dell'organo di vigilanza, preposto alla tutela di pubblici interessi,
e di chi, come De Benedetti, aveva invano chiesto di essere posto al corrente
della reale situazione economico-finanziaria del Banco Ambrosiano sei mesi prima
che il dissesto fosse accertato dall'autorità giudiziaria competente.
Quanto, infine, alla
sottoscrizione del falso rendiconto, le giustificazioni offerte dall'imputato
sono state motivatamente disattese, una volta accertatosi che erano stati
utilizzati i risultati contabili contenuti nel bilancio del 1981 e si era
perpetrata una valutazione artificiosa della partecipazione nella holding
lussemburghese e dei crediti vantati verso le consociate estere ed i beneficiari
dei vari finanziamenti, erogati senza opportune garanzie e destinati, non di
rado, a fini diversi da quelli dichiarati.
Il rendiconto presentato ai
commissari liquidatori il 20 luglio 1982 altro non doveva contenere che la
rappresentazione sintetica della situazione contabile maturatasi dopo
l'approvazione dell'ultimo bilancio, sicché almeno in quella sede si aveva
l'opportunità di abbattere il veto protettivo del silenzio sulla reale
condizione della banca e se ciò non avvenne non fu certo per l'impossibilità
materiale di farlo, bensì per l'avvertita esigenza di perpetuare una
rappresentazione che doveva occultare come il patrimonio del Banco Ambrosiano
fosse stato già tutto inghiottito dalle perdite due anni prima, cioè nel 1980, e
che le successive operazioni, giustificate dai più disparati interessi,
incompatibili certamente con un reale programma di risanamento, avevano avuto un
solo risultato, e cioè quello di consolidare l'indebitamento, aumentandone
progressivamente la consistenza.
È stato questo il percorso
logico seguito dall'impugnata sentenza, sicché non solo non emergono aspetti di
manifestata illogicità, ma neppure risultano sottratte alla doverosa analisi dei
giudici dell'appello circostanze rilevanti, potenzialmente idonee a giustificare
una diversa decisione.
È del pari destituito di
qualsiasi fondamento il rilievo dedotto dal ricorrente nei motivi aggiunti, in
relazione alla valutazione dell'elemento psicologico del reato, posto che nella
sentenza impugnata la condotta ascrivibile all'imputato non è stata ricostruita
nell'ambito riduttivo di un comportamento negligente, non attento ai segnali
d'allarme.
Esso è stato ritenuto
sintomatico di una volontaria adesione alle scelte operative di Calvi, nella
piena consapevolezza che il risultato di quelle scelte era la sottrazione di
attività dal patrimonio della banca, sottrazione della quale l'imputato era
stato un indiretto beneficiario e, nel contempo, attento ed interessato
testimone, quando nel consiglio di amministrazione della Rizzoli Editore non
potè non percepire l'interesse di Calvi e dei suoi complici ad ottenere il
controllo di quella società, attraverso finanziamenti che nulla avevano a che
vedere con le attività speculative del Banco Ambrosiano.
Né a diversa conclusione poteva
pervenirsi sulla base della conclusione giudiziaria del procedimento che aveva
visto coinvolto lo stesso imputato nella bancarotta conseguente alla
dichiarazione d'insolvenza della società Rizzoli, posto che in quel procedimento
non era in discussione la genesi dei finanziamenti del Banco Ambrosiano, né i
motivi che li avevano giustificati, bensì soltanto la loro effettiva
destinazione.
E quanto alla quotazione in
borsa delle azioni del Banco Ambrosiano, quell'operazione non rappresentava
certo la prova del definitivo superamento di una situazione di crisi, quanto,
piuttosto, lo strumento al quale la Banca d'Italia aveva fatto ricorso per
ottenere alcuni adempimenti formali, quale la presentazione di un bilancio
consolidato, che, secondo le intenzioni dei proponenti, doveva servire per
ottenere una meno incompleta rappresentazione delle esposizioni debitorie
all'estero, aspettativa delusa dal massiccio ricorso ai finanziamenti
interbancari.
Pertanto, anche sotto tale
aspetto la sentenza impugnata si sottrae ai rilievi del ricorrente.
Quanto infine all'ultimo motivo
di censura, concernente il giudizio di comparazione e la determinazione della
pena, il ricorso è ai limiti dell'ammissibilità, posto che attraverso i rilievi
dedotti si propone alla Corte una rivalutazione complessiva del fatto e della
personalità del colpevole al fine di pervenire ad una più favorevole decisione:
ma tale rivalutazione è preclusa in questa sede.
La sentenza impugnata ha
riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche, valutando positivamente il
suo comportamento processuale, ma ha giudicato tali attenuanti equivalenti alle
contestate aggravanti in considerazione non solo dell'oggettiva gravità dei
fatti accertati, ma soprattutto dell'attivo ed autorevole contributo offerto da
Prisco alla loro realizzazione e tale valutazione è in questa sede
incensurabile.
Né risulta che al fini della
concreta determinazione della pena la sentenza impugnata non abbia utilizzato
legittimamente i criteri previsti dall'art. 133 c.p., posto che ha tenuto conto,
espressamente, sia della gravità dei reati accertati, desumendola dalle modalità
con le quali si era esplicata la condotta, oltre che dalla gravità complessiva
del danno arrecato, che della capacità a delinquere dell'imputato, negativamente
caratterizzata dalla stessa reiterazione della condotta delittuosa: ne consegue
che il potere discrezionale del giudice di merito è stato legittimamente
esercitato e le conclusioni alle quali è pervenuto sono correttamente motivate.
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