Il "doping" nei conti dei big del pallone. Il bilancio delle "grandi
di WALTER GALBIATI e ETTORE LIVINI
MILANO - Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Dopo due anni di austerity e di rigore finanziario, i big del calcio italiano (Juventus, a suo onore, esclusa) tornano a cadere nella trappola del "doping contabile". La partita in questione è di quelle decisive, valida però solo per la salvezza: in ballo ci sono quei 700 milioni di perdite che Milan, Inter, Roma e Lazio devono (o a questo punto dovevano) mettere in bilancio entro giugno 2007 per coprire la voragine aperta dall'addio allo spalma-debiti, cassato dalla Ue. Una cifra gigantesca, che avrebbe costretto i presidenti e i piccoli azionisti delle squadre a mettere mano al portafoglio per firmare l'assegno monstre per evitare il crac. Pericolo scampato. Grazie allo stesso metodo utilizzato negli anni della finanza allegra della Serie A: le plusvalenze fai-da-te.
Una volta ci si scambiava i ragazzini della squadra primavera a peso d'oro, incassando guadagni milionari del tutto fittizi ma utili a tappare i buchi nei conti. Oggi il giochino è un po' più sofisticato, fatto tutto in casa ma - tutto sommato - nemmeno troppo diverso: il trucco del marchio. Milan e Inter, Roma e Lazio hanno girato a se stesse il proprio brand. Rivalutandone il valore. Una partita di giro in cui non è passata di mano una lira, certificata da relazioni di fior di luminari per giustificare la lievitazione delle cifre. Ma sufficiente a creare un tesoretto di plusvalenze fittizie di 567 milioni di euro (186 i rossoneri, 159 la squadra di Moratti, 127 la Lupa e 95 i biancazurri). Un'iniezione di sano "doping contabile" dal sapore antico che consentirà tra quest'anno (come ha fatto il Milan) e il 2007 di mandare in archivio senza drammi finanziari la zavorra dello spalmaperdite. E da cui esce del tutto "pulita" la Juventus, pietra dello scandalo dell'estate di Calciopoli, che non è dovuta ricorrere ad artifici amministrativi perché in passato aveva rinunciato all'applicazione del decreto del governo Berlusconi per allungare gli ammortamenti dei giocatori.
Peccato. Anche perché, seppur a piccoli passi, i conti delle storiche grandi del calcio italiano avevano cominciato a dare qualche timido segno di ripresa. Certo i bilanci chiusi al 30 giugno 2006 delle big, mostrano dati ancora sbilanciati, con ricavi totali pari a 905 milioni e costi per 1.160 milioni. Ma evidenziano anche cifre più confortanti: il monte stipendi che si sono divise le stelle dello scorso campionato è sceso a 499 milioni, circa 20 milioni in meno della precedente stagione. E il risultato è un passivo consolidato per le grandi di "soli" 68 milioni, la metà dell'anno precedente.
A salvare i conti sono state le plusvalenze, da cessione di giocatori per le squadre romane e del marchio per Inter e Milan. I debiti delle cinque grandi sono saliti da 972 milioni a oltre 1 miliardo, soprattutto a causa della squadra nerazzurra, che si è vista lievitare la propria esposizione a seguito del riacquisto del brand.
La necessità di ritornare alla finanza creativa è nata dopo che la legge del 2003, che consentiva di spalmare in dieci anni e non nella durata del contratto dei giocatori il costo di acquisto dei fuoriclasse, è stata giudicata inadeguata dall'Unione europea. Il decreto legge 115 convertito in legge il 17 agosto 2005 ha di fatto abrogato la legge 27 del 2003, prevedendo l'azzeramento del valore residuo della svalutazione dei diritti pluriennali entro il 30 giugno 2007. Così tutte quelle società che avevano pensato di spalmare in dieci anni gli acquisti miliardari ora sono dovute correre ai ripari.
Nell'esercizio 2003 il Milan aveva deciso di rinviare nei successivi dieci anni svalutazioni per 242 milioni. Cambiata la legge, la società rossonera ha deciso di spesare quel che rimaneva (181,5 milioni) in un solo esercizio. Per evitare un buco di bilancio il Milan, come le altre grandi, ha pensato di vendere alla controllata Milan Entertainment srl il proprio marchio, incassando una plusvalenza di 181,3 milioni, esattamente in linea con le necessità di bilancio. I cugini interisti hanno venduto lo stemma della Beneamata alla controllata Inter Brand srl, per 159 milioni, una cifra comunque inferiore agli oneri residui pari a 223,6 milioni di euro.
Anche le cugine romane hanno seguito l'esempio delle milanesi. La Lazio, che deve ancora scontare oneri per 127,7 milioni, ha valutato il proprio marchio 95 milioni, cedendolo a una controllata, mentre la Roma lo ha venduto in famiglia per 127 milioni a fronte di oneri pluriennali di 80 milioni. Ma per le romane, entrambe quotate, il doping amministrativo potrebbe avere vita breve, se la Consob, l'Autorità che vigila sui mercati, dovesse contestare l'operazione. In particolare, la Commissione starebbe valutando la compatibilità dello sfruttamento del marchio con i nuovi principi contabili. - ( 2006)
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